Voto: 
8.0 / 10
Autore: 
Gioele Nasi
Genere: 
Etichetta: 
Southern Lord Records
Anno: 
2007
Line-Up: 

- Rick – Voce e Chitarra
- Nathan – Voce e Chitarra
- Aaron – Batteria
Guest:
- Jessica Kinney – Voce

 

Tracklist: 


1. Dea Artio (5.58)
2. Vastness and Sorrow (12.12)
3. Cleansing (9.55)
4. I Will Lay Down My Bones Among The Rocks And Roots (18.16)
 

Wolves in the Throne Room

Two Hunters

Che piacevole conferma! Se con “Diadem of 12 Stars” (Febbraio 2006, per la Vendlus Records) i Wolves in the Throne Room s’erano dimostrati una delle nuove leve più promettenti ed intriganti del panorama Black Metal mondiale, il nuovissimo “Two Hunters” (Settembre 2007, e pubblicato dalla rinomata Southern Lord) celebra una band oramai in grado di confrontarsi ad armi pari anche con i mostri sacri del genere, in virtù di una personalità forte, di un’attitudine sincera e passionale, e di doti musicali ragguardevoli; non deve stupire, tra l’altro, come il nome della band inizi a circolare anche nei giri ‘alternative’ e non solo in quelli metallici: le date di supporto a gruppi estranei all’ottica Black come Jesu o Isis, l’entrata nel roster Southern Lord e l’immagine assai peculiare del gruppo stesso (i membri vivono a strettissimo contatto con la natura, spersi fra le montagne dello stato di Washington in una comune semi-autonoma) sono infatti stati un importante trampolino di lancio per una discreta diffusione della musica del trio americano, che può già godere di un buon grado di notorietà dopo solo un triennio d’attività.

Rispetto al notevolissimo predecessore rimangono invariate le principali peculiarità della band, che continua a suonare brani dalla durata consistente, oltreché decisamente ispirati: lo stile dei Wolves in the Throne Room, riproposto in “Two Hunters” senza sostanziali cambiamenti rispetto al debutto, è un Black non particolarmente sperimentale –e quindi apprezzabile anche dai ‘tradizionalisti’–, ma indubbiamente personale; come diversi altri artisti della costa Ovest del continente nordamericano (Velvet Cacoon, Agalloch, Woods of Ypres), anche i Wolves si votano all’esaltazione della natura piuttosto che alla riproposizione di quei temi depressivi che tanta fortuna hanno portato ad altri alfieri dell’USBM (Leviathan e Xasthur su tutti): la trasposizione musicale di questo loro ideale è attuata attraverso un Black Metal feroce e rapido, dai toni malinconici e bruni, la cui bontà viene esaltata anche dagli intermezzi –ben ponderati e giustificati, e quindi utilizzati con la giusta parsimonia– di matrice Folk e Ambient, perfettamente inseriti in un quadro generale eclettico e vario, ma sempre dai confini musicali ben definiti. A fare la differenza in positivo, rispetto al recente passato, è la qualità del suono, ora compattissimo e nitido (ma senza aver la laccata, plastificata, chirurgica precisione di molti altri colleghi del genere), grazie ad un mixaggio che fa risaltare a dovere ogni strumento, ma che contemporaneamente bada anche alla realizzazione di un’atmosfera sfumata e corposa capace di coinvolgere l’ascoltatore nella magnificenza dei paesaggi descritti.

E’ anche grazie a questo tipo di sound che possiamo godere a pieno dell’introduzione atmosferica -e rigorosamente strumentale- “Dia Artio”, realizzata con samples ambientali, tastiere, chitarre e batteria, che ha il merito di creare un’ambientazione calma e maestosa, prettamente naturalistica e non lontana da quell’Ambient-Black ‘forestale’ che tanta fortuna ha portato a nomi europei quali Wyrd o Drudkh: terminato il solenne prologo, s’entra nel vivo del disco con la successiva “Vastness and Sorrow”, che dopo un tenebroso incipit di chitarre elettriche, sfodera un ferale attacco di doppia cassa e chitarre sferzanti – di lì a poco si farà conoscenza con l’agghiacciante canto in screaming, che sarà nostro fedele compagno per tutto il resto del disco. Grazie ad una dinamica e potente batteria, e alle eccelse sei corde (punto di forza del gruppo) di Rick e Nathan, sontuose nel produrre un riffing che insieme racconti d’abbagliante bellezza e di desolata angoscia, la seconda canzone scivola via con fluidità nonostante la durata rimarchevole (dodici minuti), passando il testimone alla successiva “Cleansing”, che si fa notare per la prolungata sezione introduttiva di pura quiete Ambient, ad opera della voce femminile di Jessica Kinney, di grigi tamburi rituali, di spettrali sottofondi di tastiere e di una languida chitarra elettrica: in bilico tra Dark Ambient e New Age, le vibranti emozioni della prima metà del brano preannunciano tempesta, e sono difatti puntualmente spazzate via dalle altrettanto vivide visioni della susseguente parte, furente e nerissima.
Chiude in gloria “I Will Lay Down My Bones Among The Rocks And Roots”, chilometrica sia nel titolo che nel minutaggio (quasi venti minuti), nonché punta di diamante del lavoro dei nostri: i Wolves in the Throne Room lavorano splendidamente anche sulla lunghissima distanza, innescando l’aggressività del loro Black solo dopo aver deliziato l’ascoltatore con sognanti rintocchi acustici: un riffing denso, variegato, intenso si fa apprezzare sia alle elevate velocità che in momenti più cadenzati e monumentali, mentre numerose sono le interruzioni, con accelerazioni folgoranti di purissima estrazione Black e rallentamenti Tribal-Doom a rendere tortuoso l’evolversi del pezzo, comprendente anche un piccolo gioiello acustico al tredicesimo minuto –tanto confortante quanto sfuggente– e un finale di pura estasi nuovamente affidato alle tastiere, a lontani echi elettrici ed alla suadente voce femminile.

Scettici e schizzinosi si dovranno ricredere: c’è ancora del buono in quel Black Metal che non rinnega sé stesso ed anzi ama le proprie radici musicali, e questo ‘buono’ può venire anche da una terra storicamente povera di tradizione come gli States; è fondamentale però avere le qualità per sviluppare un discorso artistico degno di questo nome, che abbia vero spessore e che non si limiti alla riproposizione fine a sé stessa di cliché vecchi di vent’anni: questi tre ragazzi di Olympia hanno le capacità e il talento necessari per rinnovare ‘dall’interno’ il panorama Black, e non è un male che abbiano poco a che spartire con il consueto (e consunto) campionario di face-painting, borchie e caproni: il loro Black Metal vive di amore per l’istinto e la natura, per le emozioni più primitive ed impetuose, per il risvegliarsi non solo degli incubi, ma anche dei sogni, sopiti nel nostro inconscio.
Non c’è bisogno di gridare al capolavoro, o al disco che rivoluzionerà il genere, poiché chi ha orecchie per intendere avrà già capito dove si vuole andare a parare: sul Black Metal-podio di fine anno, ad un decennio di distanza da “Nattens Madrigal” degli Ulver, ci sarà sicuramente posto per dei nuovi Lupi...
 

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