Voto: 
6.0 / 10
Autore: 
Vincenzo Ticli
Etichetta: 
Shitkatapult
Anno: 
2007
Line-Up: 

- Sascha Ring - producer, voce

- Raz Ohara - voce

Tracklist: 

1.    Not a Number

2.    Hailing From the Edge

3.    Useless Information

4.    Limelight

5.    Holdon

6.    Fractales Pt.I

7.    Fractales Pt.II

8.    Birds

9.    Arcadia

10.    You Don’t Know Me

11.    Headup

12.    Over and Over

13.    Like Porcelain

Apparat

Walls

 

La Germania è fucina di musica elettronica fin dagli albori di questo multiforme genere: basti pensare a personalità come Stockhausen, uno dei primi pionieri e sperimentatori, per passare ai celeberrimi Kraftwerk coi loro motorik meccanici, o all’ambient sofisticato di Klaus Schulze. Apparat sembra muovere i suoi passi proprio da tale background: pseudonimo del teutonico Sascha Ring, la sua carriera musicale sorge dietro le consolle da dj da dove ha la possibilità di comporre musica prettamente danzereccia. In seguito, dopo collaborazioni con vari artisti tra i quali Ellen Allien (un’altra dj berlinese, con cui realizza due album), ha modo di discostarsi dall’idea del dancefloor e di orientare i suoi lavori verso l’ambient. Realizza quindi un EP intitolato Silizium nel 2005 e, nel 2007, arriva l’album Walls.

La premessa obbligatoria da fare è che riuscire ad ideare un album di musica elettronica,  per di più orientato verso l’ambient, che risulti originale e ben valido non è affatto una cosa semplice, sia per la relativa facilità con cui si rischia di impantanarsi in qualcuno dei numerosissimi luoghi comuni musicali che affibbierebbero all’opera l’etichetta del “già sentito”, causandone una tremenda ricaduta in termini di qualità, sia per l’enormità dei nomi che hanno fatto la storia di questo ramo della musica elettronica (tanto per citarne uno, vi dice qualcosa il nome Aphex Twin?), cosa che fa sorgere inevitabilmente aspettative e confronti molto spesso fin troppo severi.

Con Walls, Apparat mostra di sapersi difendere discretamente: l’apertura dell’album è affidata a Not a Number, traccia misteriosa in cui, in un accattivante gioco di intarsi, si condensano il senso e le direzioni della sua nuova musica: agli stentati inizi affidati ad un basso traballante e percosso da xilofoni elettronici si aggiungono presto partiture orchestrali di archi ampie e ariose che conducono all’apertura finale, ricca di intensità. Useless Information paga un po’ il dazio ai Boards of Canada, con una tastiera che li ricorda molto da vicino ed un ritmo incalzante avvolto da spirali di distorsioni cristalline. Anche in questo caso, arrivano presto i violini a rendere tutto più solenne, in una formula che appare già ben collaudata (Apparat la mise a punto nell’EP Silizium di qualche anno prima) ma anche abbastanza valida da non risultare ripetitiva. You Don’t Know Me rientra appieno nello stile delle precedenti senza aggiungere praticamente nulla a parte un ritmo trascinante, e invece sono molto interessanti Fractales Pt.I e Fractales Pt.II, due pezzi consecutivi che in effetti ne costituiscono uno solo, situati esattamente al centro dell’album quasi a fare da propulsore. Cambiano i ritmi, che si fanno più incalzanti e danzabili, spariscono gli archi, sostituiti da tocchi di pianoforte e tastiere più pesanti. La Pt.I è intrisa di un’aura quasi soprannaturale, una luce al neon che emana a tratti raggi multicolori che si rifrangono sui suoni liquidi del piano e delle morbide percussioni sintetiche, mentre nella Pt.II si svolge il finale, imperniato sul ripetitivo fraseggio pianistico circondato in ogni dove da suoni orchestrali e imponenti distorsioni elettroniche, in un collasso finale così etereo e impalpabile da ricordare gli universi ovattati dei Sigur Ròs. Questa è da considerarsi la vetta dell’album, da appaiare alla precedente Limelight. Questo è uno dei pochissimi brani in cui la componente strumentale appare completamente assente, è infatti architettato sulle fondamenta vibranti di bassi oscuri che pulsano, mentre i beats si tuffano nei timpani come sassi in uno stagno e spettrali voci campionate si susseguono ordinatamente, quasi a voler dare voce al vento artificiale creato dalle tastiere che, mai come ora,  sono efficaci nel tratteggiare e rendere quasi palpabili i bui, i cieli, i deserti che vogliono raccontare.

Bene, l’album potrebbe benissimo finire qui: se si fermasse a queste sei (in realtà cinque) canzoni potremmo affermare di non trovarci magari di fronte ad un capolavoro, ma sicuramente ad un’opera degna di nota. Ma nell’album le canzoni sono tredici: ci sono quindi altre sette tracce che, in linea generale, lasciano qualche perplessità.

In molte delle rimanenti tracce, Apparat si cimenta in un synthpop poco riuscito: spicca tra tutte Arcadia, cantata in una maniera che dona magnetismo ad una ballata sintetica ritmata e soffusa come la luce che si diffonde dallo spiraglio sotto una porta chiusa, che termina con un inserto di chitarre e tastiere che ha l’unica pecca, forse, di essere un po’ prolisso. Bella anche Over and Over, in cui Raz Ohara (che presta la voce in tutte le altre tracce in cui è presente il cantato) canta estenuato una delicata nenia su tastiere malinconiche e batterie leggermente sincopate. Salta subito all’occhio Hailing From the Edge per la sua inconsistenza: l’inizio è assolutamente dei migliori, un giro di basso accattivante introduce ad un cantato un po’ graffiato che però risulta quasi acido e distaccato, e ben presto il ritornello classicheggiante à la Jocelyn Pook e la ripetitività di alcune parti diventano piuttosto stancanti. A chiusura dell’album Like Porcelain, assolutamente insipida.

In conclusione, Walls appare ben fatto, orecchiabile e discretamente prodotto, ma non riesce a restare impresso: le sue tracce sono fluide come l’acqua, ma come l’acqua fanno presto ad evaporare.

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