Voto: 
8.7 / 10
Autore: 
Marcello Zinno
Etichetta: 
Sanctuary Record
Anno: 
1972
Line-Up: 


- Gary Thain – basso
- Lee Kerslake – batteria
- Mick Box – chitarra
- Ken Hensley – tastiera, moog e chitarra
- David Byron – voce

Tracklist: 

1. Sunrise
2. Spider Woman
3. Blind Eye
4. Echoes In The Dark
5. Rain
6. Sweet Lorraine
7. Tales
8. The Magician’s Birthday

Uriah Heep

The Magician's Birthday

Un nome che ai più risulta non solo sconosciuto ma anche impronunciabile nasconde una storia lunga quasi quarant’anni di successi, di cambi (non solo di line-up ma anche di sound) e più che altro di sensazioni suscitate dai fan e, ecco l’aspetto interessante, dai meno esperti del genere. Gli Uriah Heep aprono le vere personali danze da una doppietta di capolavori concepiti nello stesso fatidico anno, il lontano ’72, di cui faceva parte The Magician’s Birthday.

Suadente, leggera come una carezza, la voce di Byron si muove penetrante tra le emozioni, mai bruscamente tocca le corde emotive della nostra sensibilità, senza mai cantare realmente ma immedesimandosi nella parte dettagliata in un copione troppo difficile da interpretare. E non solo i testi sembrano incastonati in un’opera d’arte creata da forme geometriche impossibili ed uniche, bensì è il connubio dell’arte in musica ed in concetti/idee/parole che esplode fin dalla prima traccia e fa splendere il sole (“Sunrise…”) proprio lì in alto, privo di alcuna forma di tramonto né di allontanamento.

Con una tale scioltezza si passa, appunto, da una traccia emotiva come Sunrise capace di sprigionare un pathos irripetibile, ad una molto più rock & roll come Spider Woman che presagisce le sorti future del sound della band mentre le tonalità vocali raggiunte, alte, si mescolano con quelle della chitarra di Mick Box, altissime, in una bevanda dal sapore esotico ed allo stesso tempo esoterico.È proprio l’alternarsi di temperature, di climi, tra una traccia e la sua successiva che richiede un’attenzione estrema da parte di chi ascolta; peccato che tale attenzione richieda un sapore imprescindibilmente razionale per poter gustare a pieno la genialità di questi cinque spontanei musicisti. In tal senso Blind Eye ed Echoes In The Dark non possono che aprire il sipario in modo magistrale e con un’acuta attenzione agli arrangiamenti (mai banali) a quello che può definirsi un pezzo apice dell’intera decade: Rain. Un titolo semplice (“Pioggia”), che rappresenta una manifestazione volontaria e necessaria della natura, la quale, nella sua massima spontaneità, produce forti ripercussioni su una serie innumerevole di fattori vitali fino a stravolgere addirittura l’umore delle persone stesse. Non è un caso la scelta del nome visto che si tratta della medesima interpretazione assegnata alla musicalità degli Uriah: una song semplice, amabile per un pubblico anche più easy, ma che nasconde una sofisticata trasposizione della musica in un quid astratto paradisiaco che, senza alcuna sbavatura, attraverso una composizione egregia, lascia il vuoto al termine dei quattro minuti di estasi.

Si ritorna al rock & roll con Sweet Lorraine (“…Let the party carry on”) ma è ancora una parentesi suadente nell’attesa di riproporre un’atmosfera ancora incantevole con Tales, pezzo colorato di sfaccettature elettroniche surclassate da strumenti a corda, abili riproduttori di tocchi provocanti, capace di dipingere di acustico un qualcosa che altrimenti potrebbe essere ben più duro (l’agonia di Byron nell’interpretare questo pezzo non è un elemento fortuito). Ma c’è ancora spazio per qualcosa di corposo, una creatività che come nei sette capitoli precedenti non stenta ad emergere ma anzi spinge fino a mostrare tutta la sua forma, ed ammesso che ne abbia una questa prende, come la title-track, il nome dell’album. È sorprendente notare con quanta agilità bridge in classico e comunissimo stile “happy birthday to you…” vengano rinforzati da sintetizzatori che ancora oggi potrebbero diffondere invidia all’interno della sfera alternative ed allo stesso tempo siano infarciti da assoli che sfociano l’essenza di arrangiamento ed irrompono verso un muro rock, nonché da atmosfere puramente progressive. In concomitanza con i primi Deep Purple, nei primi anni in cui la vera psichedelia stava contaminando le genti e probabilmente con un coraggio artistico che non è solo difficile sfoggiare ma anche possedere, ecco a voi gli Uriah Heep!


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