Voto: 
5.5 / 10
Autore: 
Vieri Sturlini
Etichetta: 
Inside Out/Audioglobe
Anno: 
2009
Line-Up: 

- Pete Trewavas - basso Warwick, basso Taurus e voce
- Mike Portnoy - batteria, voce
- Roine Stolt - chitarra acustica, chitarra elettrica, voce, Mellotron, tastiere aggiuntive e percussioni
- Neal Morse - pianoforte, organo Hammond, Mini Moog, Rhodes Piano, synth, voce, chitarre aggiuntive e mandolino


Tracklist: 

1. The Whirlwind

I - Overture
II - The Wind Blew Them All away
III - On The Powl
IV - A Man Can Feel
V - Out Of The Night
VI - Rose Colored Glasses
VII - Evermore
VIII - Set Us Free
IX - Lay Down Your Life
X - Pieces Of Heaven
XI - Is It Really Happening
XII - Dancing With Eternal Glory

Transatlantic

The Whirlwind

Le aspettative erano alte, dopo tutti questi anni d'attesa. In rete i forum fremevano, tra domande e dubbi "ci sarà mai un altro album dei Transatlantic?", "Neal Morse tornerà mai sui suoi passi?". Questo terzo album è stato atteso e desiderato e sospettato e sospirato almeno quanto il quarto film di Indiana Jones. Ci sono voluti otto anni e alla fine eccoci qui, The Whirlwind è finalmente tra le mani degli appassionati che per lungo tempo hanno aspettato: questo è il prodotto dell'attesa, per alcuni della speranza e per altri della semplice curiosità.

È probabilmente su quest'attesa frenetica che Morse e soci hanno giocato tutte le loro carte.Cosa c'è da dire su questo disco che non sia già stato detto in passato per i precedenti lavori? Cosa c'è da dire su questo gruppo che tutti non sappiamo già? Un po' come il quarto episodio della saga di Indiana Jones, questo Whirlwind non introduce niente nel discorso che non sia già stato affrontato in passato. Gli ingredienti di questo disco sono sempre i soliti e sono (figuriamoci!) ottimi e assolutamente funzionali agli scopi del gruppo, ma sono obsoleti, scontati, inflazionati. In definitiva, noiosi. In tutta l'ora dell'unica mega-traccia che compone il disco si respira un senso di prevedibilità, di già sentito, di noto. I Transatlantic ci hanno fatto un gran bel favore a riunirsi dopo otto anni, ma è evidente che come band non è evoluta (logicamente, verrebbe da supporre), e tutto quello che i quattro hanno da proporre è la solita idea, il solito disco, il solito stile. La capacità che hanno queste persone di creare ottime melodie è come sempre straordinaria, l'eleganza dell'esecuzione è come sempre di altissimo livello, gli arrangiamenti sono squisiti. Un aspetto discutibile (ma è questione di gusti) potrebbe essere il marchio di fabbrica di Neal Morse (che già in passato ci ha deliziati con dischi identici), che conferisce al disco quel sound felice e colorato tipico dei suoi lavori con gli Spock's Beard. Altro aspetto irritante sono le idee vecchie: è palese lo zampino di Roine Stolt in A Man Can Feel, dove una finta spinetta accompagna con un fare falso inquietante un testo "so you think you're in control?" di una banalità disarmante. Carino, ovviamente, ma vecchio. In definitiva, il disco è ineccepibile, musicalmente e strumentalmente parlando. Ma è inutile.

Si può riconoscere ai quattro di aver cercato di rinnovare un po' il loro sound, creando quando possibile atmosfere un po' più cupe, giocando con sonorità un po' più orientate sul metal. È, d'altra parte, nuovamente imperdonabile che alcune parti cantate siano state affidate a Portnoy, ma anche questa di certo non è una novità. C'è poi l'aspetto faticoso del disco, cioè la durata. Un'ora, signori, un'ora (perché prog significa anche "pezzi lunghi"). Un'unica canzone di un'ora. Per pietà del gruppo stavolta è stata data agli ascoltatori la possibilità di scorrere ognuna delle parti (dodici in totale) come singole tracce, rendendo il tutto più digeribile e, per così dire, "scorrevole". Anche perché ascoltare tutto il disco di fila rappresenta una sfida per chiunque, senza considerare che la canzone comincia a concludersi a circa venti minuti dalla fine, alternando finali a reprise, dando l'illusione di avercela fatta, essere arrivati in fondo, per poi salire nuovamente con un nuovo tema o un arpeggio di tastiere o qualche assolo infinito di hammond. Il massimo dello sforzo col minimo del risultato, considerato che ogni parte oltre la sesta/settima sembra messa lì per forza, ostentata e poco amalgamata col resto.

Questo è un disco per gli appassionati dei Transatlantic, un disco da comprare per una mera questione di principio, un disco figlio dell'attesa che ha come unica funzione quella di riempire lo spazio vuoto sullo scaffale accanto a Bridge Across Forever. Potete comprare The Whirlwind, se volete. Saprete subito cosa aspettarvi, perché i Transatlantic nel 2009 si rivelano essere nient'altro che un gruppo cover di sé stessi. Dopo cinque minuti dall'inizio saprete che i tre o quattro temi che sono stati eseguiti verranno riproposti altre due o tre volte prima della fine dell'album e che con ogni probabilità saranno gli stessi che concluderanno il disco. Un modo di comporre che dieci anni fa (quaranta?) avrebbe stupito ed emozionato e che ora conferisce a ciò che viene definito "progressive" un'aura di prevedibilità semanticamente imperdonabile. Sarebbe ragionevole ritenere che questo contentino per fan sfegatati rappresenti l'ultimo capitolo della discografia dei Transatlantic.


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