Voto: 
7.4 / 10
Autore: 
Gioele Nasi
Genere: 
Etichetta: 
Tursa/Dark Vynil
Anno: 
2005
Line-Up: 

- Tony Wakeford - Voce, Chitarra, Tastiere
- Eric Roger - Tromba. Flauto, Voce
- Gary Parsons - Chitarra, Percussioni, Voce
- Karl Blake - Basso
- Maria Vellanz - Violino
- Renee Rosen - Violino


Tracklist: 


1. We Are The Dead Men (2:08)
2. Old London Weeps (4:43)
3. The North Ship (5:08)
4. A Steed for the Devil (3:15)
5. There Did Three Knights Come From the West (5:41) [tradiz.]
6. Twa Corbies (2:42) [tradiz.]
7. Semaphore Seasons (5:31)
8. O Death Come Close My Eyes (3:18)
9. The Devil's Steed (4:24)
10. The Edge Beckons (3:34)
11. Where Stone Lions Prowl (8:11)
12. Come Winter Rain (2:15)
13. A Window to the Sun (2:39)
14. The Silver Swan (6:24) [tradiz.]

Sol Invictus

The Devil's Steed

Il 2005 segna il ritorno di una band ‘storica’ nel panorama Dark Folk internazionale, quei Sol Invictus che, da sempre sotto l’accorta guida di Tony Wakeford, hanno scritto pagine importanti della storia di questo genere, rimanendo fra le più influenti del movimento nonostante la leggera flessione accusata da “Thrones”, platter del 2002 che non convinceva a fondo come alcuni suoi illustri predecessori.

All’epoca, le premesse non sembravano delle migliori: oltre all’imminente tracollo economico della World Serpent, che distribuiva i dischi della band, s’era assistito agli abbandoni del grandissimo violinista Matt Howden (volendo egli dedicarsi anima e corpo ai Sieben, come ci ha confermato Tony nell’intervista) e della cantante Sally Doherty – insomma, i raggi del Sole Invitto, già poco brillanti in quel periodo, sembravano destinati ad offuscarsi ancor di più. Ma Wakeford, da vecchia volpe qual è, ha compiuto un mezzo miracolo ed ha fatto tornare il suo progetto più splendente che mai, montando in sella a questo “destriero del diavolo” (raffigurato anche sulla cover dall’artista Tor Lundvall) con un carico di ben quattordici canzoni, tra cui tre cover di pezzi tradizionali e tre strumentali.

Su “The Devil’s Steed”, i Sol Invictus abbandonano il sentiero neoclassico, ricco e orchestrato di “Thrones” e dei lavori più recenti, per riproporre un suono più datato, più vicino alle origini della band, con le chitarre di Tony Wakeford e Gary Parsons ad infittire le proprie trame per riprendersi il ruolo predominante che spetta loro di diritto. La triste e matura voce di Tony è loro buona compagna, così come la tromba di Roger: il francese non esce dal seminato, ma impreziosisce con una prestazione impeccabile il disco, riempiendo ogni angolo quando è giusto farsi sentire, ma lasciando campo agli altri strumenti nei momenti meno maestosi. Altra piacevole sorpresa, oltre ai sempre precisi violini della coppia Rosen-Vellanz, è la bontà dell'apporto di Karl Blake, uno dei primissimi membri della band, il cui basso oscuro, elettrico ed inquietante, è fondamentale nei momenti più spigolosi e stridenti del disco, quando l'atmosfera echeggia momenti industriali e scenari apocalittici.

L’apertura, mozzafiato, è affidata alla coppia formata dalla nenia “We Are the Dead Men” e dalla riuscitissima “Old London Weeps”, evocante brumosi e piovigginosi paesaggi cittadini, con il fumo delle fabbriche e mescolarsi alle nubi incombenti su una Londra delicatamente piangente.
I due brani seguenti, più atmosferici, vedono una maggiore componente misteriosa e spettrale, con feedback e tastiere atmosferiche a dettare legge; sono il tetro preludio per la straordinaria coppia che segue in scaletta: la quinta “There Did Three Knights Come From the West” e la sesta “Twa Corbies”, entrambe re-interpretazioni di brani tradizionali. Nella prima sono le chitarre acustiche a disegnare lo sfondo, con un discreto accompagnamento sovrastato dal duetto fra la voce di Tony e un poderoso coro – il crescendo strumentale prenderà il sopravvento durante la seconda parte di canzone; in “Twa Corbies”, classica parodia dell’altrettanto classica “Three Ravens”, la chitarra è elettrificata (creando echi di Rock catastrofico e Dark) e gode di maggiore importanza nell’insieme del brano: maestosa e personalissima, questa traccia è probabilmente l’apice dell’album, capace com’è di rivedere la tradizione con sapiente maestria, tanto da rendere indelicato il paragone con la –ben più scadente– versione della stessa song ch’era presente sul live “In The Jaws of The Serpent” (1989).

Si prosegue, e “Semaphore Seasons”, così come la soprannaturale e fatalista strumentale “O’ Death, Come Close My Eyes”, è trascinata dagli arrangiamenti di Eric Roger, assoluto protagonista, tanto potente e quanto magistralmente capace di creare atmosfere surreali; l’approccio è più delicato sia con “The Devil's Steed”, disturbata da temi suicidi, brevi interventi rumoristi e percussioni funeree, che nella successiva “The Edge Beckons”, a metà fra “Twa Corbies” e “Old London Weeps” – un brano che mantiene alto il livello qualitativo, contemporaneamente premiata e ferita da un refrain un po’ troppo semplicistico ma di sicuro effetto.
Nonostante la cristallina bellezza di alcuni fraseggi, il finale è troppo prolisso, con due brani tirati un po’ troppo per le lunghe (“Where Stone Lions Prowl” e “The Silver Swan”) intervallati da altri due che vengono bloccati prima che possano entrare nel vivo (“Come Winter Rain” e “A Window to the Sun”): in tutto si arriva ad un’ora di musica, durata abbastanza condivisibile per un cd che ha molte frecce al proprio arco, ma che non è in grado di prolungare ulteriormente la propria storia - anzi, una decina di minuti in meno non avrebbero fatto male.

Consigliato ad occhi chiusi ai fans ed ai nostalgici del gruppo di Wakeford, “The Devil’s Steed” è un disco di grande fascino, sinceramente inaspettato nella sua completezza e nel suo indovinato e rinnovato indirizzo sonoro, capace di guardare al passato senza suonare anacronistico (non più del solito, perlomeno) o sembrare un riciclato di vecchiume.
In definitiva, una sorpresa piacevolissima, e un disco capace di non sfigurare anche quando confrontato con classici del calibro di "The Blade", "Lex Talionis" o "Against the Modern World".

"The silver swan, who living had no note,
When death approached, unlocked her silent throat,
She leaned her breast against the reedy shore,
She sung her first and last, and sung no more:
Farewell all joys! O death, come close my eyes;
More geese than swans now live, more fools than wise."

[The Silver Swan, Traditional British Poem]


LINKS PER L’ASCOLTO
- Sample di “Old London Weeps”

NUOVE USCITE
Filastine & Nova
Post World Industries
Montauk
Labellascheggia
Paolo Spaccamonti & Ramon Moro
Dunque - Superbudda
Brucianuvole
Autoprod.
Crampo Eighteen
Autoprod..
BeWider
Autoprod..
Disemballerina
Minotauro
Accesso utente