Voto: 
7.5 / 10
Autore: 
Alessandro Mattedi
Genere: 
Etichetta: 
Listenable Records/Century Med
Anno: 
2000
Line-Up: 

:
- Björn "Speed" Strid - voce
- Peter Wichers - chitarra
- Ola Frenning - chitarra
- Ola Flink - basso
- Carlos Del Olmo Holmberg - tastiera
- Henry Ranta - batteria

Guest:
- Mattias Eklundh - alcuni assoli


Tracklist: 

:
1. Chainheart Machine
2. Bulletbeast
3. Million Flame
4. Generation Speedkill
5. Neon Rebels
6. Possessing the Angels
7. Spirits of the Future Sun
8. Machinegun Majesty
9. Room 99

Soilwork

The Chainheart Machine

Dopo aver acquisito una certa esperienza e affrontato il primo di una serie di cambi di line-up nel corso della discografia ufficiale per via di "divergenze musicali" (per la precisione Ola Frenning, zio di Wichers, subentra a Ludvig Svarts alla chitarra, mentre il batterista Persson cede il posto a Henry Ranta), i Soilwork si portano ai nastri di partenza del 2000 con un disco in cui mostrano l'intento di personalizzare il loro stile, oltretutto sempre pesante e gravitante attorno a tre pilastri principali:

- estremismo musicale (sottoforma di velocità, aggressività e durezza) grazie alle chitarre rocciose, alla batteria martellante e al canto urlato lancinante, picchiando anche più sodo davvero rispetto alla norma;
- una certa propensione all'orecchiabilità, nelle aperture melodiche di diversi refrain e in alcuni interventi di tastiera, atta a rendere più coinvolgente l'ascolto in abbinamento alla pesantezza di prima, non cadendo in ciò nella blandezza ma mostrando sempre uno stile ed una classe eccellenti;
- tecnicismi che, pur risultando ogni tanto un po' ridondanti, rendono più modellato il disco, altrimenti maggiormente prevedibile nel consueto susseguirsi di passaggi violenti ma melodici.

Ne nasce così Chainheart Machime, lavoro fortemente d'impatto e dalla ferocia cristallina (che molti altri gruppi svedesi non sono riusciti a raggiungere sfociando invece in sbiaditi ed insipidi lavori).
Questo disco mantiene tutte le caratteristiche positive mostrate dal gruppo, come il forte impatto, le armonizzazioni di chitarra intrecciate con refrain aggressivi e martellanti, i cambi di ritmo esaltanti. La critica del settore all'epoca lo accostò, in quanto ad efficacia compositiva e genuinità, a Slaughter of the Soul degli At the Gates - anche se dobbiamo dire che i Soilwork cercano di imboccare un'altra propria strada, trovando anche influenze da, ad esempio, gli Arch Enemy, oppure da gruppi nel complesso distanti come gli In Flames ma che in certi pezzi più tirati e martellanti (es. Food for the Gods) hanno gettato qualche seme raccolto dal gruppo di Helsingborg, che inoltre espande di un pizzico il lato tastieristico, anticipando alcune soluzioni che adotteranno in futuro.
Il risultato è però ancora un po' immaturo, risultando a volte eccessivamente forzato nei momenti più violenti e ancora bisognoso di una definitiva personalizzazione stilistica (che vedremo definitivamente nel prossimo disco) e di un songwriting più rifinito e bilanciato, meno acerbo. Va però detto che il disco venne lo stesso accolto dal pubblico metal in maniera entusiasta, suscitando innumerevoli acclamazioni - per i fan del genere Chainheart Machine è un po' un piccolo capolavoro, che a gusti potrebbe piacere molto più dei successivi lavori.

La titletrack iniziale è subito una mazzata micidiale: Strid urla violentissimo, la batteria martella il brano impulsivamente, le chitarre sono ferocissime e granitiche, ma ecco che arriva il refrain maggiormente melodico a proiettare verso una nuova dimensione che ha il suo culmine emotivo nel pre-assolo, una sfuriata di doppio pedale, riff caustici, screaming sofferto e tastiere atmosferiche. L'assolo vero e proprio invece sposta il tutto su coordinate maggiormente virtuose. Il risultato è uno dei pezzi più efficaci di sempre del gruppo.
Bulletbeast è un thrash/melodeath tiratissimo maggiormente in linea con il disco di debutto, di un vigore ferocissimo che si dipana anche in Million Flame, introdotta da un soffuso tappeto di tastiera ambient di sottofondo sulla quale si adagiano chitarre leggere ma taglienti ed una batteria rocciosa, per poi entrare nel vivo della canzone in cui confluiscono spunti da Arch Enemy o ultimi At the Gates per forgiare qualcosa che ricorda entrambi ma non è nessuno dei due. Nel corso del disco si sviluppano così riff trascinanti, sempre accompagnati da uno Strid la cui prestazione farebbe perdere del tutto la voce a persone comuni, che aumentano a dismisura la carica mostrata dal gruppo già con la sola dinamicità e la sua velocità.
Nella successiva Generation Speedkill i Soilwork (in maniera relativa) accentuano maggiormente il lato melodico e le tastiere di sottofondo ottengono più spazio - certo, sempre intrecciando il tutto con un'esecuzione furiosa ed un impatto durissimo. Ne risulta una hit trascinante e memorabile.
Neon Rebels non varia molto quando già sentito, semplicemente porta avanti il discorso dei cinque svedesi senza grosse variazioni, così come anche Possessing the Angels, mentre gli assoli sono altalenanti fra l'esecuzione estrosa ma graffiante e il tecnicismo con un pizzico di sboronaggine (iniziano ad essere un po' prevedibili in alcuni punti).
Si variano un po' le cose con Spirits of the Future Sun, dall'introduzione oscura e raggelante in cui la chitarra principale si incentra su di un bending atmosferico, mentre quella ritmica le prepara il terreno con chords bassi e infuocati, assieme alla tastiera di sfondo. Ma dopo un passaggio con riff fra l'heavy ed il melodic death, il brano torna sulle solite coordinante del disco, in maniera però meno impetuosa e meno efficace, tranne forse che nell'infuocato e divertente assolo e nei riff sottostanti magmatici.
Machinegun Majesty è un esercizio di stile che continua a percorrere il discorso metal estremo con refrain un po' più melodici, piacevole ma senza sorprese.
Chiusura affidata all'ottima Room no. 99, una delle tracce migliori dell'album; un trascinante rimescolamento di passaggi violentissimi, ritornelli catchy ed evocativi, assoli incisivi (soprattutto quello d'intermezzo risulta emozionante e con un pizzico di nostalgia fra le note, in maniera molto espressiva) e riff schiacciasassi. C'è però anche una ghost track, una breve esecuzione di archi semidrammatici che riprende l'effetto sonoro aprente il disco, un po' come suggerendo di riprendere l'ascolto dall'inizio attivando la ripetizione del cd.

Mentre altri gruppi melodic death metal o thrash metal scandinavo nati nella seconda metà degli anni '90 iniziano in questo periodo a stagnare (es. Gardenian, oppure Haunted, Carnal forge ecc.) i Soilwork si dimostrano ben più efficaci, rilasciando un disco possente e micidiale che non rivoluziona i contenuti della scena svedese ma che quel che dice lo fa meglio di molti altri gruppi con assai meno ispirazione, grinta, verve - mostrando soprattutto grosse promesse per il futuro se i Soilwork sapranno partire da queste basi per coniare una formula più slegata dagli schemi precedenti, senza indugiare sulla stessa identica proposta, come difatti vedremo in seguito.


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