Voto: 
10.0 / 10
Autore: 
Emanuele Pavia
Etichetta: 
CBS
Anno: 
1970
Line-Up: 

- Robert Wyatt - Voce, batteria, (non creditato sul disco: Organo Hammond, Hohner pianet, pianoforte, basso sulla traccia 3)
- Hugh Hopper - Basso
- Mike Ratledge - Organo Lowrey, Hohner pianet, pianoforte
- Elton Dean - Sassofono contalto, saxello (non presente sulla traccia 3)

Guests:
- Lyn Dobson - Sassofono soprano, flauto (traccia 1)
- Jimmy Hastings - Flauto, clarinetto basso (traccia 2)
- Rab Spall - Violino (traccia 3)
- Nick Evans - Trombone (traccia 4)

Tracklist: 

1. Facelift (Live)
2. Slightly All the Time
3. Moon in June
4. Out-Bloody-Rageous

Soft Machine

Third

La registrazione di Volume Two segna l'indiscusso spartiacque nella carriera dei Soft Machine, che a partire dal 1969 attraversano il proprio periodo creativo più ispirato e prolifico.
 
Nell'estate dello stesso anno Robert Wyatt, Hugh Hopper e Mike Ratledge partecipano infatti alle sedute di registrazione di Joy of a Toy di Kevin Ayers, al fianco di personaggi quali David Bedford e Robert Tait (che collaboreranno in seguito anche con Lol Coxhill e Mike Oldfield). La pubblicazione dell'album avviene a novembre per opera della neonata Harvest, dopo un'altra collaborazione con Kevin Ayers (questa volta del solo Robert Wyatt, sotto lo pseudonimo di Whack Skins per evitare complicazioni contrattuali) per il 45 giri Soon Soon Soon, a settembre, seppur il pezzo non venga pubblicato dalla Harvest prima del 1976 sulla compilation Odd Ditties.
 
La maturazione artistica dei Soft Machine, alle prese come sessionmen o collaboratori con realtà sempre più diverse ed elaborate, porta il gruppo a covare una crescente frustrazione musicale per via della propria dimensione di power trio: le partiture del gruppo diventano sempre più articolate e complesse, mentre l'esecuzione dei pezzi, affidata a sole tre persone, costringe la band a contenere le proprie ambizioni compositive, dovendosi limitare al (pur fantasioso e creativo) formato del rock psichedelico dei primi due lavori. Già a maggio Wyatt aveva provato a risolvere la questione proponendo a Brian Hopper di entrare nella band come quarto membro, ma la sua collaborazione si era limitata ad alcune date nell'estate 1969 e alla registrazione di circa novanta minuti di droni, esperimenti minimalisti e jam psichedeliche che procedevano su un percorso totalmente diverso da quello imboccato dal gruppo su The Soft Machine e Volume Two (questi nastri, editati e ripuliti dai rumori e dalle imprecisioni delle registrazioni originali, verranno pubblicati nel 1996 dalla Cuneiform con il titolo Spaced, e rappresentano una testimonianza unica dell'evoluzione stilistica del gruppo a cavallo degli anni Sessanta e Settanta).
 
La svolta arriva nell'autunno, quando i Soft Machine reclutano Mark Charig (cornetta), Nick Evans (trombone) ed Elton Dean (sassofono contralto), tutti e tre musicisti al tempo impegnati nel Keith Tippett Group; inoltre, Elton Dean porta con sè l'amico Lyn Dobson (flauto, sassofono tenore e sassofono soprano), che al tempo dirigeva un trio jazz. La band così rinnovata diviene di fatto un ensemble jazz e, a novembre, i Soft Machine arrivano perfino a suonare in alcune date a fianco del quartetto di Thelonious Monk.
Il mese successivo il gruppo si imbarca in un tour francese, riscuotendo molti consensi e importanti riconoscimenti (Volume Two viene addirittura definito il miglior disco dell'anno dal dicastero delle politiche giovanili del governo francese), ma al termine dell'esperienza gli esausti Charig ed Evans abbandonano i Soft Machine, a causa di problemi economici («C'erano difficoltà incredibili su tutti i fronti, non escluso il problema pratico di non avere soldi e attrezzature sufficienti per sette persone») e difficoltà tecniche legate all'inesperienza del gruppo come ensemble di sette elementi («Non avevamo l'esperienza necessaria a controllare un simile volume di suono. Ma soprattutto era faticoso, perché con sette persone si trascendeva sempre o nella rigidità concettuale o nel caos totale»). Dobson lascia la band poco tempo dopo, una volta concluso un secondo tour francese intrapreso all'inizio del 1970.
 
I Soft Machine, nonostante tutte le difficoltà, proseguono la loro attività nella nuova (quanto imprevista) dimensione di quartetto, lavorando in impegnative sessioni di registrazione di un nuovo LP dall'aprile al maggio dello stesso anno, che si concretizzano finalmente nel doppio Third, pubblicato dalla CBS il 6 giugno 1970.
L'album rifugge totalmente il sostrato culturale pop/psichedelico da cui i Soft Machine erano emersi due anni prima, immergendosi sempre più in profondità nella musica jazz (per quanto per pigrizia o per ignoranza lo si riconduca spesso a semplice "jazz fusion", quello dei Soft Machine è un particolare connubio tra le propaggini più sperimentali del post-bop anni Sessanta e le neonate sonorità del jazz elettrico introdotte da Miles Davis in In a Silent Way e Bitches Brew - quest'ultimo pubblicato proprio durante le sessioni di registrazione di Third -) ma con l'approccio e con le tecniche dell'avanguardia, elettronica e non. La psichedelia dei primi due dischi sopravvive, di fatto, solo nelle atmosfere dell'album, dilatate e fuori dal tempo: i pastiche patafisici e le ricercate fantasie melodiche all'insegna del nonsense dadaista, infatti, sfumano ora in elaborati susseguirsi di variazioni sul tema, improvvisazioni corali e assoli strumentali di chiara matrice jazz, che vengono quindi modificati, ritagliati e rifiniti tramite le amatoriali tecniche di manipolazione dei nastri dei musicisti, seguendo l'esempio fornito da Uncle Meat (e in particolare da King Kong), il definitivo capolavoro di Frank Zappa nell'ambito del jazz rock.
Questa volta, però, l'influenza delle Mothers of Invention non si riflette più nello spirito dei Soft Machine, al contrario di quanto era accaduto con Volume Two (che di Absolutely Free riprendeva anche il piglio ironico e surreale). Third è infatti totalmente avulso dall'umorismo caricaturale di Zappa, rimpiazzato qui da un'inedita aura austera e rarefatta, che trova nelle atmosfere mistiche e trascendenti del minimalismo religioso di Terry Riley e nelle sonorità impressioniste e fumose dell'opera più recente di Miles Davis i termini di paragone più appropriati, anche per via dell'eccellente tecnica esecutiva che i Soft Machine hanno raggiunto grazie alle ultime esperienze live.
 
È cambiato però qualcosa anche nell'equilibrio interno alla band: i Soft Machine non sono più l'inesperto, per quanto affiatato, trio rock che aveva registrato The Soft Machine e Volume Two. I vari membri della band hanno ormai raggiunto la definitiva maturità e la totale autonomia artistica, e se queste conquiste da un lato rendono le loro idee sempre più radicali e creative, dall'altro conducono a un inevitabile allontanamento (stilistico, ma soprattutto umano) tra i vari componenti del gruppo. Le loro personali visioni musicali, che già erano emerse prepotentemente nella realizzazione di Volume Two (Ratledge è sempre più interessato a un ibrido tra musica colta e jazz, Wyatt ha sviluppato ormai un linguaggio unico che fonde pop, rock, jazz, soul, dadaismo e sperimentazioni vocali, mentre Hopper cede sempre più al fascino della musica d'avanguardia e di strumenti come tape loop, overdub e collage elettronici), vengono qui portate alle estreme conseguenze, rendendo quasi impossibile la comunicazione dell'una con le altre.
Non è un caso che le quattro composizioni, una per ogni lato del doppio vinile, siano totalmente opera ognuna di un musicista diverso (una facciata è diretta da Hopper, una da Wyatt e due da Ratledge), rappresentando in tal modo il diretto precedente dei percorsi successivamente intrapresi dai Soft Machine (d'ora in poi sempre più dominati dal jazz geometrico di Ratledge) o dalle carriere soliste dei loro membri.
 
La prima facciata è occupata da un montaggio di due diverse performance live di un brano di Hopper, Facelift, risalenti ai tempi in cui i Soft Machine erano ancora un quintetto con Lyn Dobson e registrate il 4 e il 16 gennaio, a Croydon e Birmingham rispettivamente. In realtà, la versione "live" che viene pubblicata su Third ha poco a vedere con le esecuzioni dell'epoca: nessuna di queste, al tempo, raggiungeva la durata di quasi venti minuti del pezzo registrato sull'album, e a questo si aggiunge un importante lavoro in fase di post produzione dello stesso Hopper che edita e stravolge le diverse improvvisazioni del complesso.
Le tensioni sperimentali sono evidenti fin dall'apertura del brano (di fatto, una versione embrionale della Neo-Caliban Grides di Elton Dean), con un delirante assolo di organo di Ratledge straziato, distorto e manipolato elettronicamente, cui fanno eco dopo tre minuti i dissonanti interventi braxtoniani del sassofono, a introdurre all'effettivo tema jazz rock di Facelift e alla lunga improvvisazione collettiva che da esso scaturisce. Una diversa incisione, introdotta da un sghembo lavoro di percussioni di Wyatt e da un'ostinata figura di tastiere e basso, viene quindi sovrapposta alla prima che, una volta sopraffatta dalla nuova registrazione, si disperde lentamente in fade-out. Al suo posto, emerge un'esibizione totalmente aliena: i sassofoni hanno giusto il tempo di imbastire una fanfara bandistica sostenuta dal passo di marcia di Wyatt prima che Dobson si abbandoni a un lirico e commovente solo di flauto, sospeso suadente sopra il vuoto pneumatico di un asfissiante tappeto elettronico. Solo allora si ritorna alla dimensione concertistica iniziale, questa volta però arricchita dal solo del flauto, divenuto ora pirotecnico, virtuoso ma sempre legato a doppio filo al tema portante dell'improvvisazione secondo la lezione di Sam Rivers.
Quando il sassofono di Dean e il piano di Ratledge chiudono definitivamente l'esibizione del quintetto, ripresentando il riff originale di Facelift, Hopper, in preda all'ultimo singulto delle proprie tentazioni sperimentali, sovrappone un'ulteriore registrazione (proveniente dalle sessioni di Spaced) al nastro, che nel frattempo viene fatto scorrere al contrario, distorto e infine accelerato fino alla dissolvenza.
Lo stile adottato nella realizzazione di questo brano, coniugando i mezzi dell'avanguardia elettronica e le improvvisazioni jazzistiche, porteranno poi il bassista a esordire in solitaria nel 1973 (con 1984, edito sempre dalla CBS ma che proprio a causa di un'ispirazione musicale tanto ardita deciderà di non finanziare minimamente il lavoro), per poter esplorare in ogni dettaglio le sue intuizioni senza alcun tipo di pressione esterna, e quindi a proseguire la sua ricerca musicale anche negli anni Novanta al fianco di complessi sperimentali come i Caveman Shoestore (che proprio dall'opera di Hopper trarranno ispirazione). Nonostante gli ottimi risultati conseguiti anche in questi progetti, però, Hopper non raggiungerà mai nuovamente le stesse vette di eccellenza di Facelift, che rappresenterà sempre il punto di riferimento della sua esplorazione artistica (fino a diventare quasi uno standard del suo repertorio e della scena di Canterbury in generale), nonché il suo capolavoro assoluto.
 
Un placido riff di basso introduce invece Slightly All the Time, il pezzo più apertamente jazz di tutto Third e, non per nulla, composto principalmente da Ratledge. Si tratta di una misurata, ma formalmente impeccabile, composizione di post-bop elettrico, alla maniera del Davis di fine anni Sessanta, ricavata da 11/8 Theme (all'epoca già da qualche mese nel repertorio live dei Soft Machine) incorporandovi i temi di Noisette (opera invece di Hopper) e di Backwards
Slightly All the Time segna il definitivo passo in avanti dei Soft Machine rispetto alla psichedelia degli esordi, che ancora giocava un ruolo fondamentale nella riuscita di suite già ambiziosissime per intenti come Esther's Nose Job, abbracciando definitivamente le forme e gli strumenti della musica jazz. Proprio per questo, sarà proprio Slightly All the Time il referente principale per gli sviluppi successivi della carriera del complesso (e, di conseguenza, uno dei momenti cruciali per la definizione del sound del jazz rock di Canterbury come è inteso oggi). 
All'ispiratissima base ritmica di Wyatt e Hopper (la cui classe nell'accompagnare e sostenere le figure melodiche principali è direttamente paragonabile a quella di importanti musicisti jazz del tempo come Tony Williams e Steve Swallow) si aggiunge ora anche Ratledge, rinunciando alle vesti di egocentrico protagonista che conduce l'improvvisazione con i suoi assoli di organo in favore del ruolo di raffinato comprimario, sostenendo i motivi dei fiati con un pianismo jazzato che rielabora in maniera originale e creativa la lezione di Duke Ellington e di Thelonious Monk.  
Gli assoluti protagonisti di Slightly All the Time sono infatti il sassofono di Dean, che qui comincia a mettere in mostra il suo personalissimo fraseggio a cavallo tra il lirismo di Wayne Shorter e le sonorità avant-garde di Jimmy Lyons, e il clarinetto basso di Jimmy Hastings (storico membro dei Caravan nella stagione d'oro del gruppo, che qui si esibisce anche in un soave assolo di flauto). Duettando e tessendo insieme le trame melodiche della composizione, i due fiati mantengono il ruolo di principali solisti fino a oltre metà pezzo, quando finalmente l'organo si abbandona a un solo vorticoso per introdurre la breve esposizione del tema di Noisette.
Quando però il brano ritorna sotto le redini di Ratledge, proseguendo nell'esecuzione della sua Backwards, il jazz elettrico della prima parte viene declinato in un'ottica più liquida e acida, con basso e batteria in accelerando a incalzare lo sviluppo della composizione e l'organo effettato che distorce i fraseggi di Dean, prima che l'ultimo assolo di quest'ultimo (questa volta non più melodico e avvolgente quanto libero e disinibito, alla maniera di Ornette Coleman) riporti i Soft Machine a ripresentare il motivo di sax di Noisette, che chiude così il primo vinile di Third.
 
Il secondo LP viene inaugurato da quella che probabilmente rappresenta la più spiazzante fra le composizioni di Third, e che proprio per questo spesso viene considerata il capolavoro massimo non solo dell'album, ma di tutta la carriera dei Soft Machine: Robert Wyatt firma timidamente Moon in June, di fatto il suo primo (e migliore) lavoro solista.
Moon in June è l'unica traccia non strumentale di Third, l'ultimo importante trait d’union tra le radici patafisiche dei Soft Machine (tant'è che non vi è nemmeno la partecipazione di Dean) e gli sviluppi sempre più cerebrali della loro arte. Non a caso, il suo concepimento risale al novembre del 1968, quando una versione praticamente identica dei primi dieci minuti del pezzo era stata registrata in solitaria da Wyatt insieme a una bozza schizoide e anarchica della Rivmic Melodies apparsa poi su Volume Two (queste demo verranno pubblicate solo nel 2013 sull'antologia '68 di Robert Wyatt, edita dalla Cuneiform). 
Improvvisandosi bassista e soprattutto tastierista (adoperando organo Hammond, Hohner pianet e pianoforte), Wyatt realizza un componimento che non solo esula dal rock psichedelico delle origini, ma anche dalle velleità jazz e sperimentali del resto dell'album. Gli arrangiamenti della prima metà dell'opera sono pervasi da una innocente spensieratezza venata di romantica malinconia, ben diversa dal candore ottimista delle canzoni leggere di Kevin Ayers dei primi Soft Machine (che pure vengono citati apertamente, con i motivi delle tastiere che riprendono i temi di That's How Much I Need You Now e You Don't Remember, entrambi brani risalenti al 1967) ma ancora più distante dall'epica tragicità dei King Crimson e dei Van der Graaf Generator. Eppure, trapela dalle note un imponente senso di solitudine, che sembra prevedere la sorte che toccherà a Moon in June e al suo autore.
L'intervento degli altri due Soft Machine originali giunge solo nella seconda metà del lavoro: sopra i dimessi fraseggi pianistici, l'organo distorto di Ratledge impone improvvisamente la sua presenza in un solo/duetto con il fuzz del basso di Hopper. Quando, dopo pochi minuti, i due compagni abbandonano nuovamente Wyatt la musica assume però toni estremamente decadenti e sofferti: le frasi della tastiera vengono via via scarnificate, fino a formulare solo note sconnesse sulle quali un assolo di violino dell'amico e musicista free jazz Rab Spall, registrato autonomamente dal violinista in una sessione totalmente slegata da quella di Moon in June, viene manipolato, accelerato e rallentato per seguire il tempo dettato dai vocalizzi scat di Wyatt (che seguono la melodia di Singing a Song in the Morning di Ayers). In questo inquietante paesaggio sonoro, si chiude lentamente la terza facciata di Third.
Non solo Moon in June rappresenta il più importante lascito alla storia del rock del Robert Wyatt compositore, ma è anche il componimento che più di ogni altro riflette il clima umano instauratosi tra i membri dei Soft Machine: la fugace partecipazione di Hopper e Ratledge è infatti dovuta a una loro personale antipatia per la stessa Moon in June, che inizialmente li aveva perfino portati a opporsi alla sua pubblicazione su Third. La poetica sviluppata da Wyatt in questo brano rimane comunque uno dei momenti culminanti del rock inglese e finirà per caratterizzare tutti i momenti maggiori della sua carriera solista, anche se lo stesso non si può dire per le sue intuizioni strettamente musicali (che di fatto verranno approfondite solo sul capolavoro The End of an Ear, registrato e pubblicato qualche mese più tardi dalla CBS proprio come valvola di sfogo per un Wyatt che avverte un clima di ostilità sempre più soffocante all'interno del gruppo). 
 
La chiusura di Third è affidata nuovamente a Ratledge, che conclude l'opera con quello che è al contempo il suo personale capolavoro e uno degli apici nell'intera discografia dei Soft Machine.
Out-Bloody-Rageous è il culmine degli studi del tastierista sulle possibilità della musica totale: mai prima d'ora Ratledge aveva operato una fusione tanto radicale tra le forme dell'avanguardia elettronica (è qui che, in tutta la sua produzione, si riscontra maggiormente l'influenza del fondamentale A Rainbow in a Curved Air, pubblicato solo l'anno prima da Terry Riley) e l'irruenza della musica rock (preservata dai suoi caratteristici torrenziali assoli in legato sull'organo Lowrey, oltre all'ovvia strumentazione elettrica), che vengono qui collocate in un formato che recupera tanto l'improvvisazione del jazz quanto il rigore strutturale della musica colta. La preparazione accademica di Ratledge si sublima in una serie di turbinose variazioni sul tema, organizzate analiticamente secondo un meticoloso progetto geometrico che gioca continuamente con simmetrie, sviluppi circolari e rapporti tra le parti dei vari strumenti (ai quali in questa sede si aggiunge il trombone di Nick Evans, ultimo ospite di Third).
L'introduzione è affidata a un lento fade-in di un ostinato mulinello minimalista di frasi elementari dell'organo, sovrapposte e confuse in un groviglio di loop e overdub di quasi cinque minuti, ideale ponte tra l'arte di Terry Riley e gli sviluppi del minimalismo ambientale della seconda metà degli anni Settanta, che conduce inesorabilmente allo sviluppo più jazzato del pezzo. Inaugurata da un motivo di pianoforte, che viene prontamente ribadito da Hopper (che ricama la linea di basso rileggendo al contrario il riff di organo introduttivo) e dall'ispiratissimo drumming di Wyatt, l'improvvisazione del gruppo viene condotta come al solito da un intricato assolo di Ratledge, quindi speziata dagli interventi del sax di Dean (che ora insiste sulla melodia principale, ora si libra sinuoso in volteggi evanescenti) e spezzata da continue variazioni sul tema (scandite di volta in volta da stacchi dei fiati, digressioni in solitaria del basso e riprese dei vortici elettronici dell'introduzione).
Il brano si colora di sfumature più sfuggenti nella seconda metà, grazie a un intimo tema di pianoforte che sostiene trombone e sassofono e che dirige Third alla sua climax definitiva: Dean si cimenta in un toccante assolo di saxello (probabilmente la sua prova migliore allo strumento con i Soft Machine), in una sorta di personale rilettura dello spiritualismo di John Coltrane alla luce dello stile visionario di David Jackson, ingabbiato dal mistico tappeto di organo e basso e dal delicato tocco di Wyatt. Il sax riesce a evadere dalla sua prigione onirica solo nel momento in cui la jam si spegne; ammutoliti i propri compagni, infine, Ratledge si avvia da solo verso la conclusione definitiva dell'album, con un fade-out degli stessi inquieti tumulti minimalisti che avevano aperto Out-Bloody-Rageous.
Se questo non è il lascito più importante dell'intera operazione Soft Machine al mondo della musica, poco ci manca. 
 
Elegante, sofisticato e ambizioso, ma non per questo eccessivo o autoindulgente (punto in cui falliranno molti dei doppi album successivi della stagione progressive inglese), Third è il manifesto più compiuto della musica dei Soft Machine, il disco definitivo del sound di Canterbury e una delle pietre miliari della musica rock (inglese e non) di ogni tempo. La portata delle intuizioni di questo lavoro è inestimabile: non solo i Soft Machine rifondano e superano gli stereotipi del neonato progressive rock e di ogni tipo di commistione tra jazz e rock, ma gli arrangiamenti visionari di questo album e il loro unico approccio alla musica popolare avrà importanti ripercussioni su molte delle derive più sperimentali e intellettuali del rock, dal krautrock al post-rock degli anni Novanta. 
Ma questo traguardo viene raggiunto a discapito della stabilità del complesso. Elton Dean e la sua passione per il jazz diventano sempre più ingombranti, mentre Hopper e Ratledge cominciano ad arroccarsi sempre più nelle strutture cervellotiche che finora avevano saputo conciliare con un gusto compositivo con pochissimi eguali, finendo per allontanare sempre di più Wyatt, nostalgicamente ancorato alla musica più semplice dei primi tempi.
Third è insieme la manifestazione della grandezza dei Soft Machine e dei loro singoli membri e al contempo l'epitome dell'inizio della fine del miracoloso equilibrio instauratosi tra le varie personalità del gruppo, ormai troppo distanti tra loro non solo per collaborare, ma anche per coesistere nella stessa band.
 
«Le crepe cominciarono ad apparire allora. E dopo, l'identità del gruppo divenne quasi un ricordo... almeno per me.» (Robert Wyatt)
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