Voto: 
7.5 / 10
Autore: 
Damiano Cembali
Etichetta: 
Audioglobe
Anno: 
2008
Line-Up: 

- Lajon Witherspoon - voce
- John Connolly - chitarra, voce
- Clint Lowery - chitarra, voce
- Vinnie Hornsby - basso
- Morgan Rose - batteria, voce


Tracklist: 

1. Inside (04:36)
2. Enough (04:34)
3. Hope (feat. Mark Tremonti) (04:42)
4. Scapegoat (03:55)
5. Fear (05:06)
6. The Past (feat. Chris Daughtry) (03:53)
7. Prodigal Son (03:33)
8. Lifeless (04:34)
9. Sorrow (feat. Myles Kennedy) (04:49)
10. Contradiction (03:24)
11. Walk Away (06:34)

Sevendust

Chapter VII : Hope & Sorrow

I Sevendust sono da sempre band multiforme e spesso incauta: facendo perno sulla strabiliante voce del loro black leader Lajon Witherspoon, costruiscono una musica estremamente “facile” che molto spesso, più che avere un sua propria ragion d’essere, pare semplicemente assecondare i gusti momentanei della platea al confine fra mainstream e underground, dando adito a numerose e troppo spesso motivate speculazioni sulla loro reale ispirazione artistica. Nonostante le critiche, e forse proprio grazie a quest’ultime, i Sevendust sono tornati per l’ennesima volta alla ribalta con un album assolutamente inaspettato e, forse proprio per questo, estremamente valido: Chapter VII : Hope & Sorrow è quanto di meglio il combo di Atlanta abbia proposto sinora, giacché ripropone in maniera assolutamente sublime le linee guida del proprio background musicale (batteria quasi elementare ma sempre precisa, melodie orecchiabili ma non eccessivamente catchy, suono pressoché al limite della pulizia) ma le integra con l’inserimento, quasi mai fuori luogo, di elementi mutuati da altri generi musicali quali l’industrial, l’elettro e l’acustico e, soprattutto, con le partecipazioni eccellenti dei colleghi Alter Bridge Mark Tremonti e Myles Kennedy. Non si può certamente essere sicuri che con quest’ultima uscita i 5 musicisti americani riusciranno finalmente a mettere a tacere i loro fanatici accusatori, ma tant’è: il settimo capitolo della loro carriera è potente, mai banale e soprattutto, in alcuni felici momenti, quasi innovativo.

La prima traccia manifesta già apertamente che è finito il tempo degli attacchi immediati, che sconvolgevano brutalmente anche l’ascoltatore meno distratto: un insospettabile incipit dai toni industrial di “reznoriana” memoria stende a nostra sorpresa un tappeto sonoro oscuro ed elettrico, d’improvviso strappato da un giro di chitarra nitido e vigoroso che ci introduce ad un semi-urlato tipicamente “Sevendust”. Il chorus, subito dopo, ci riporta a galla dopo il piacevole smarrimento iniziale: vibrante ma non nervoso, melodico ma non melenso, tinto di quell’oscura profondità vocale che soltanto la voce di un cantante di colore può offrire. Inside, nonostante un testo a dir poco banale (difetto ormai congenito nella produzione dei 7D), si presenta immediatamente come uno degli episodi più riusciti dell’album, invogliandoci a proseguire fiduciosi nell’ascolto: il meglio, infatti deve ancora arrivare.

Tralasciando la mediocre Enough, che, pur facendosi apprezzare per una coinvolgente sezione ritmica ed un efficacissimo bridge, si spegne in un chorus veramente scadente, arriviamo al primo pezzo forte dell’album, Hope, con la partecipazione del chitarrista degli Alter Bridge, ex Creed, Mark Tremonti: dopo una soffusa introduzione pianistica (primo omaggio all’acustico) atmosfere cupe e strofe volutamente minimaliste sottolineano la deliziosa interpretazione di Whitherspoon, che esplode in un ritornello quanto mai possente e intimamente sentito, ulteriormente rafforzato dalle grida dei cori che lo precedono. Sembra veramente di assistere ad una rappresentazione teatrale, della quale riusciamo a distinguere perfettamente tutti i singoli atti: le urla, mai così utili ai fini del messaggio musicale, esprimono una rabbia e una frustrazione dalle quali non può che risorgere una speranza, come suggerisce lo stesso titolo, mirabilmente espressa dal crescendo vocalmente impeccabile del cantante. Unica nota dolente, lo scarso apporto di Tremonti nell’economia del pezzo: la sua chitarra non esalta nelle strofe, non si esalta nei chorus nè stupisce, come al contrario quasi sempre accade con i suoi Alter Bridge, nell’assolo, che risulta incredibilmente scoordinato dalle linee melodiche del brano e, quanto meno nella parte iniziale, addirittura fuori luogo (al di là dell’indiscutibile manifestazione di abilità tecnica, come al solito ineccepibile).

A parte Scapegoat, che si fa notare solamente per un buon assolo di chitarra (finalmente!), e Fear, che si distingue per una stranissima introduzione d’atmosfera vagamente subacquea salvo poi affogare l’ascoltatore in un mare di banalità (uniche eccezioni: le battute finali, con accordi molto accattivanti), ecco presentarsi nel lettore CD la traccia decisamente più controversa: The Past, con la partecipazione del vincitore di American Idol Chris Daughtry. Sebbene il pezzo si inserisca molto bene all’interno dell’album, essendo l’unica vera ballad (per giunta con un’esemplare base di chitarra acustica) nel corso degli oltre 50 minuti di Chapter VII : Hope & Sorrow, e Chris Daughtry offra una prestazione canora più che decorosa, resta pur sempre un interrogativo che amletico è dire poco: per quale motivo i Sevendust, un band indubbiamente affermata per lo meno entro i confini U.S.A.., chiede la collaborazione di un giovane artista appena reduce dal successo in una celeberrima trasmissione televisiva? 1) Perché punta con sorprendente fiducia nelle sue qualità canore? Oppure 2) Perché intravede nella sua fresca notorietà la possibilità di rilanciare anche la propria immagine? Ai posteri l’ardua sentenza.

L’album supera quindi, teso e potente, le note di Prodigal son, singolo non eccellente ma di sicuro impatto (per chi volesse approfondire, occhio al videoclip), e raggiunge Lifeless, brano abbondantemente al di sopra della media: un’inquietante introduzione elettrica, ulteriore conferma delle sperimentazioni industrial, coglie immediatamente la nostra attenzione e la accompagna fino ad un inatteso ritornello acustico, estremamente gradevole e azzeccato, che si tramuta poi, sul far della conclusione, in un chorus pesante e a dir poco trascinante. Dopo l’apparizione non certo esaltante di Tremonti, tocca ora a Myles Kennedy vendicare l’onore degli Alter Bridge: Sorrow mette così in mostra due delle più belle voci del moderno panorama rock, quella nitidamente white dell’ex cantante dei Mayfield Four e l’altra così calorosamente black di Whitherspoon, le quali si uniscono in un coro quanto mai suggestivo per dar lustro ad una solida ballata dalle lontane rimembranze grunge (anche se nettamente più solare delle proverbiali atmosfere made in Seattle).

Saltando la noiosa e inutile Contradiction, niente più che un fastidioso filler, Chapter VII : Hope & Sorrow affida i saluti finali a Walk away: brano esaltante (attenzione al grazioso intermezzo in puro stile Scar tissue dei Red Hot Chili Peppers), che parte in maniera decisamente aspra e decisa e poi, in un crescendo di elevata intensità, sfocia in un chorus nel più classico metodo Sevendust, con la band a costruire una consistente struttura musicale (finalmente un vero e proprio wall of sound) in grado di supportare più che degnamente la dirompente potenza e la grazia (sì, avete capito bene) vocale del suo leader. A tutto questo va aggiunto il sofferente e malinconico outro che, quasi completamente acustico, si contrappone idealmente (e simmetricamente) all’introduzione della prima traccia, puramente industrial, sigillando così placidamente la fine del nostro viaggio in 7D.

Come già accennato in precedenza, non sappiamo se quest’ultima opera riuscirà a togliere definitivamente ai Sevendust l’etichetta di prodotto esclusivamente commerciale: del resto, non sempre la commercialità è un difetto, se ben supportata da una discreta creatività e da una buona dose di qualità tecnica; tuttavia, resta netta l’impressione che ai 5 di Atlanta manchi irrimediabilmente quel quid per assurgere ai livelli di band matura e completa, eliminando quella spiacevole sensazione di approssimazione o, meglio, incompiutezza che si respira in più di un episodio di questo album e dei precedenti. Proprio la scelta di ricorrere, per la prima volta in tutta la loro discografia, a importanti collaborazioni rivela forse, da parte dei Sevendust, la dolorosa ammissione dei propri limiti: non c’è dubbio, infatti, che un’eventuale evoluzione artistica, per 5 musicisti arrivati ormai al loro 11esimo anno di carriera, avrebbe dovuto prodursi già ampiamente in precedenza. Rimane però ugualmente viva la speranza che Chapter VII : Hope & Sorrow sia, se non proprio la consacrazione, almeno un ulteriore e soprattutto migliore punto di partenza per il futuro: una voce dinamica, puntuale e avvolgente come quella di Lajon Whitherspoon non merita certamente di essere trascinata nell’affollato dimenticatoio delle “promesse non mantenute”.

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