Voto: 
7.0 / 10
Autore: 
Alessandro Mattedi
Genere: 
Etichetta: 
Nuclear Blast/SPV/Steamhammer
Anno: 
2001
Line-Up: 

- Jon Oliva - voce, tastiere, pianoforte
- Al Pitrelli - chitarra
- Chris Caffery - chitarra
- Johnny Lee Middleton - basso
- Jeff Plate - batteria

Tracklist: 


1. Stay With Me a While
2. There in the Silence
3. Commissar
4. I Seek Power
5. Drive
6. Morphine Child (Cantations)
7. Rumor
8. Man in the Mirror
9. Surrender
10. Awaken
11. Back to Reason

Nota finale:

Anche se de facto è con questo disco che si chiude la lunga discografia dei Savatage, ufficialmente il gruppo è solamente "in sospeso", con Jon Oliva che ha espresso più volte l'intenzione (mai concretizzata), di pubblicare un ultimo, definitivo disco con il gruppo, magari in occasioni particolari come il venticinquesimo anniversario dalla formazione - occasioni che sono tutte trascorse senza effettive reunion d'addio.
Ma in realtà dopo molti anni, e con Jon che ha voltato pagina dedicandosi al progetto Jon Oliva's Pain a briglie sciolte, si può considerare Poets & Madmen l'ultimo capitolo del viaggio iniziato verso la fine degli anni '70 dai due fratelli Oliva.

Savatage

Poets & Madmen

Dopo la pubblicazione di Wake of Magellan, il marchio Savatage entra in una sorta di limbo, in quanto il successo riscontrato dalla Trans-Siberian Orchestra spinge Jon Oliva e Paul O’Neill a concentrarsi maggiormente sul loro nuovo progetto (sforzo che culmina nel loro album migliore, Beethoven’s Last Night, nel 2000). A questo punto però si avverte la necessità di tornare a comporre per la formazione madre. I due hanno già in mente un nuovo concept e iniziano a scrivere qualche canzone: è il preludio al dodicesimo e ultimo full-lenght dei Savatage, cioè Poets & Madmen.
Ma la genesi del disco è travagliata, perché Al Pitrelli e Zachary Stevens lasciano il gruppo. Il primo per entrare nei Megadeth (e al suo posto viene reclutato tal Jack Frost) mentre il secondo è divenuto da poco padre e non se la sente di allontanarsi dalla famiglia per un nuovo lungo tour. Comunque, neanche il tempo di dire "oh" che Pitrelli litiga con Mustaine e decide di tornare con Jon, che così con poco galateo licenzia Frost, e intanto viene contattato un giovane cantante, Damond Jiniya, con l'intento di dividere a metà le parti cantate con lui. Damond però non può partecipare alle registrazioni in studio a causa di numerosi impegni, così Jon, ormai ripresosi dai problemi alle corde vocali, sceglie di tornare completamente dietro al microfono per tutto il corso del full-lenght dopo dieci anni esatti dall'ultima occasione.

La musica di Poets & Madmen segna un maggiore indurimento dello stile dei Savatage rispetto a Wake of Magellan, con riff più aggressivi, stacchi più duri, minori aperture soft-oriented: insomma, un disco più genuinamente heavy. Ma ciò non impedisce che esso suoni comunque più atmosferico degli standard del genere e che le tastiere di Jon non impreziosiscano i pezzi con il loro contorno melodico. L’atmosfera che permea l’album assume tinte più oscure che nel precedente disco, un po’ anche per adattarsi al concept, e la voce cupa e caustica di Jon si sposa perfettamente con queste caratteristiche, dimostrandosi un'ugola carismatica e brillante; certo, le sue linee vocali sono diversissime rispetto agli acuti rauchi di tanto tempo addietro, ma il suo timbro di voce rimane immediatamente riconoscibile.
Inoltre produzione e arrangiamenti vengono relativamente ammodernati (ad esempio il lato più groovy/thrashy di Al Pitrelli e Caffery, vicino alla scena dei '90 grazie anche all'accordatura ribassata, sporca il riffing).

L'inizio del disco è eccellente, con l'opening Stay With Me a While (dura, aggressiva, decadente) e soprattutto l'intrigante There in the Silence con i suoi synth oscuri, i riff granitici e l'assolo caustico. Ci sarebbe da aggiungere anche Commissar per via della sua parte iniziale, oscura, inquietante e ossessiva grazie ai riff ripetuti, alla batteria macabra e alle stratificazioni vocali con coro; ma il resto del brano, più spedito e tagliente, è anche meno atmosferico e suggestivo, suonando meno convincente.
Rimedia a ciò la successiva I Seek Power, al tempo stesso bruciante e raggelante come fondendo le due parti di Commissar, anche se il risultato non è efficace come nel duetto d'apertura.
Viene ora un pezzo veloce come Drive, negli intenti adrenalinico, ma di gran lunga il meno caratterizzato fino a questo momento.
Se fino a questo momento il disco è avanzato seguendo una parabola discendente, il brano successivo spezza l'andamento poiché fa raggiungere il vertice assoluto: Morphine Child è infatti il gioiello del disco, l’unico brano che propone una struttura poliedrica ed un’intenzione maggiore di variare gli schemi. Una piccola perla di progressive metal sinfonico che passa rapidamente da un mood all’altro: emozionante, malinconica, epica, aggressiva, ora con un Jon che canta dolcemente sopra timidi giri di note, ora con imponenti cori liturgici che si sovrappongono. È anche il brano più lungo della storia dei Savatage (dieci minuti, non moltissimi in confronto ad altri gruppi però).
Rumor sembra una ballata acustica malinconica e bucolica, condita da un certo spiritualismo nelle liriche, ma ad un certo punto subentrano le prevedibili schitarrate distorte a spezzare l'atmosfera. Peccato perché poi la canzone si dipana in fraseggi ancora più intimisti e toccanti, sicuramente efficaci se non fosse per le scariche metalliche che ci vengono ficcate in mezzo per forza, probabilmente con l'intento di fare contrasto dolceamaro, ma che in realtà suonano banali e fuori luogo.
Seguono ora l'oscura e granitica Man in the Mirror (in cui si nota l'intermezzo aggressivo ed alienante) e l'intensa Surrender (con alcuni dei vertici emotivi più suggestivi dell'album nella sua coda di chiusura) a ripercorrere i binari già consolidati del disco.
La mordace Awaken non aggiunge nulla di nuovo e suona più piatta e monotona delle altre canzoni.
In conclusione troviamo Back to a Reason, una commovente ballad il cui compito è quello, sì, scontato, di emozionare, e nella sua semplicità concettuale centra il bersaglio con precisione unica; ed in particolar modo il suo crescendo emotivo (prima dolce ed atmosferica, poi via-via più impetuosa fino a diventare un'intensa rocker, contrasto significativamente più a fuoco ed equilibrato che in Rumor), formalmente banale, riesce ad essere ugualmente convincente e arrangiato con classe. Il canto del cigno dell’album.

Alla fine sembra che non vi sia stata molta ambizione nella composizione del disco, anzi, Jon in alcuni pare casi tornare al passato rispetto agli altri dischi del periodo post-Criss, nel senso di privilegiare un sound più d'impatto e meno orchestrato, reinterpretandolo nell’ottica attuale del gruppo.
Dietro le note un feeling che molti gruppi invidierebbero (senza contare che il tutto rimane decisamente migliore di molte uscite prive di personalità che scopiazzano lavori del passato) ed il disco è magistralmente suonato, però manca della brillantezza e dell’originalità che avevano contraddistinto altri album. Le canzoni prese singolarmente si rivelano altalenanti, alcune ottimamente pensate, altre più piatte e poco incisive.
Ne risulta un lavoro che fa un po' fatica a decollare, ma impreziosito comunque da un'atmosfera ed una personalità difficilmente rintracciabili altrove.

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