Voto: 
8.5 / 10
Autore: 
Alessandro Mattedi
Etichetta: 
Atlantic/Wea
Anno: 
1995
Line-Up: 

- Jon Oliva - pianoforte, tastiere, chitarre, voce nei brani 4 e 6
- Zachary Stevens - voce
- Chris Caffery - chitarra
- Al Pitrelli - chitarra
- Johnny Lee Middleton - basso
- Jeff Plate - batteria


Tracklist: 

1. Overture
2. Sarajevo
3. This Is the Time (1990)
4. I Am
5. Starlight
6. Doesn't Matter Anyway
7. This Isn't What We Meant
8. Mozart and Madness
9. In Memory
10. Dead Winter Dead
11. One Child
12. Christmas Eve (24/12)
13. Not What You See

Savatage

Dead Winter Dead

Il ciclo che si concluse con la morte di Criss Oliva pose fine ai Savatage come gruppo nel senso classico del termine, ma non impedì che il monicker si estinguesse e diventasse un concetto ancora più esteso, una grande famiglia di musicisti che si riunisce attorno a Jon Oliva, il fulcro della formazione attorno al quale ruotano tutti i collaboratori e i membri. Handful of Rain rappresentò il giro di boa, il cambio della guardia, insomma, fu il perno attorno al quale la storia dei Savatage ruotò per avviarsi verso una nuova era per loro, e in quest’opera di transizione già si intravedevano le coordinate musicali alle quali Jon, con i suggerimenti del fido O’ Neill, avrebbe puntato. L’alba di questo nuovo giorno non è esattamente tutta rose e fiori: oltre alle beghe contrattuali che continuano ad impedire a Jon di figurare nei crediti degli album, il nuovo chitarrista Alex Skolnick si attira le antipatie dei fan cambiando tutti gli assoli di Criss nei concerti. Anche Jon e gli altri non la prendono molto bene, col risultato che l’ex-Testament viene allontanato senza troppe storie (anche di sua volontà perché voleva dedicarsi ad altri progetti personali) mentre fa il suo gradito ritorno per tutti i Savafan una vecchia conoscenza, Chris Caffery (secondo chitarrista nelle registrazioni di Gutter Bullet e nel tour seguente), che affranto torna giurando di suonare tutti gli assoli “così come li suonava Criss”. Nel frattempo viene reclutato alla batteria Jeff Plate, un amico di Stevens che aveva già suonato nel tour successivo ad Handful of Rain con il gruppo dopo la dipartita di Wacholz. Manca solo un ulteriore chitarrista, e il suo ruolo viene assegnato ad Al Pitrelli, noto per la sua cura esecutiva e per il suo essere un “musicista-vagabondo”, saltando da un gruppo all’altro (i più noti erano forse gli Alice Cooper). Completata una formazione stabile, Jon e O ‘Neill ritrovano l’entusiasmo per tornare a comporre e, partendo dal tema di una canzone del precedente disco, Watching You Fall, che parla della guerra nei Balcani, elaborano il concept per la loro nuova fatica: Dead Winter Dead.
La trama racconta le vicende e le riflessioni personali di due giovani ragazzi, il militare serbo Serdjan Aleskovic e la partigiana musulmana Katrina Basic, coinvolti a modo loro nella guerra che infuria e allietati solo, nel caos di Sarajevo, dal suono di un violoncello suonato da un'anziana persona. Quella musica è per loro l'unico conforto fino a quando, la notte di Natale, la musica improvvisamente cessa e i due, temendo il peggio, si incontrano mentre cercano l'anziano musicista...

Musicalmente, ormai i Savatage rientrano per (più o meno) tutta la durata del full-lenght a pieno titolo in quello che è un vero e proprio metal sinfonico (nel senso di orchestrato con anche strumenti classici, non ha nulla a che vedere con le proposte europee di metal melodico pomposo e sovraddosato di strings e lirismi ampollosi), partendo dai semi già disseminati su alcune delle traccie di Handful of Rain (su tutte Chance). È c'è il ritorno alla rock opera, in quanto viene musicato e orchestrato un racconto particolare, e i testi, supportati da melodie consone all’atmosfera, esemplificano lo svolgersi delle vicende. Lo stile chitarristico si risolve in un ibrido pulito e melodico fra l’energia dell’heavy, un piglio più leggero maggiormente orientato verso il rock ed una vena leggermente thrashy nelle ritmiche, il tutto filtrato attraverso l’ottica dell’album, articolato fra brani più spediti ed un approccio sinfonico, sempre con un maggiore occhio di riguardo verso le melodie anche in alcune costruzioni più progressive. La definizione heavy metal, nel senso tradizionale del termine, inizia a farsi stretta per questo disco dallo stile unico e originale, mai fine a sé stesso e con un’equilibrio eccellente nel ruolo degli strumenti, più flessibili che in passato, con alcuni spazi in cui le chitarre diventano un supporto alla struttura generale del brano oppure si fanno indietro lasciando maggior campo d'azione al resto della strumentazione. Una struttura progressista ed arrangiamenti eleganti e atmosferici, grazie soprattutto alle tastiere presenti in grande quantità, rappresentano il completamento finale di questo lavoro ricco di pathos e creatività, ma la vera ciliegina sulla torta viene aggiunta dalla classe unica dei Savatage che da quel qualcosa in più per cui si può parlare di pietra miliare del rock più duro.

Dopo l'imponente ma atmosferica Overture si entra direttamente nella storia con Sarajevo, soffusa breve introduzione al concept che si fa più dinamica sul finire, ricollegandosi alla storica This Is the Time, che rievoca l'emozionalità dei brani più intensi di Streets. Un trittico di canzoni collegate fra loro, fra momenti più epici, crescendo di emotività, assoli vibranti e interessanti spazi atmosferici. I Am è un rock sinfonico basato su di una ripetizione quasi marziale del sabbathiano riff principale e della sezione ritmica di supporto, mentre il lungo intermezzo si tinge di atmosfere epiche; la vera sorpresa però è il ritorno di Jon Oliva alla voce dopo circa cinque anni: piano piano il Mountain King inizia a riprendere confidenza con il microfono, ma non è più quello di un tempo, niente più canto acuto e sguaiato, ora il suo timbro è meno duro e ruggente, più basso e graffiante. Forse questo Jon alla voce è anche più apprezzabile di quello di un tempo (ma questo è unicamente soggettivo). Tocca ora alla cupa e inquietante Starlight, dove il microfono rientra nelle mani di Zac che si esibisce in uno dei chorus più carismatici del disco. Doesn’t Matter Anyway è un pezzo molto interessante, a metà fra un thrash metal leggero incalzante e divertente, un'orecchiabilitù che strizza l'occhio al British metal e piccoli spunti crossover nel piglio, nei muting e nel brevissimo intermezzo funky. Torna nuovamente Jon nel ruolo di vocalist e la sua interpretazione mordace e sarcastica del testo è un ottimo segnale per il futuro, sperando di ritorvarlo sempre più spesso alla voce: per ora invece è tutto. La successiva This Isn't What We Meant è una delle canzoni più popolari del full-lenght, una ballad potente ma emozionante in pieno stile Savatage. Memorabile la strumentale Mozart and Madness, catturante intreccio di pianoforte, tastiere, archi e chitarre, ora dolce e melodico, ora deciso e martellante, il vertice dell'elemento sinfonico dell'album. Piccola parentesi, nuovamente strumentale, con In Memory, una breve esecuzione dell’Inno alla Gioia con la chitarra, dopodiché si giunge alla titletrack Dead Winter Dead, una canzone cadenzata, melodica ma sempre con uno stile ruvido, vicino a quello di Doesn't Matter Anyway, con l'aggiunta di escursioni virtuosistiche. Si passa dunque alla densa One Child, altra canzone storica dei Savatage fra hard & heavy, brevissimi spunti blueseggianti e sovrapposizioni vocali a metà fra l'ottantiano e delle tonalità epiche. Il disco volge al termine, c'è prima una nuova strumentale, l'ottima Christmas Eve - ricca ed emozionante, ora tenue ed evocativa, ora maestosa e suggestiva, apice sinfonico dell'album dopo Mozart and Madness - che sarebbe stata in seguito recuperata per il progetto della Trans-Siberian Orchestra, ideato da Jon Oliva e Paul O 'Neill proprio poco dopo la pubblicazione di Dead Winter Dead: curiosamente infatti questa canzone divenne un'inaspettata hit radiofonica per la band, convincendo i due americani a "sviluppare" un nuovo progetto parallelo incentrato su quello che diverrà poi la TSO. La conclusione avviene con la toccante ballata Not What You See, condotta inizialmente dal pianoforte di Jon e dalla voce di Zac (con all'occorrenza qualche sporadico arco di sottofondo) per poi sfociare nel consueto picco d'emozionalità con l'arrivo, un po' prevedibile, delle chitarre e della batteria e con l'aggiunta di sovrapposizioni vocali dal timbro emozionante e soave, in un risultato che nel complesso ricorda When the Crowds Are Gone per la suggestività.

Non c’è che dire, un piccolo capolavoro del metallo pe(n)sante capace di dimostrare, nel pieno degli anni '90, che non ci sono solo il metal estremo e il metal alternativo e moderno, ma che anche il metal classico continua a vivere con pochi, grandi gruppi.
Viene facile chiedersi come sarebbero stati i Savatage se Criss non fosse morto: difficile a dirsi, ma non è azzardato ipotizzare che sarebbero stati simili a questi che abbiamo conosciuto, perché anche prima metà del songwriting era pur sempre curato da Jon e, almeno negli ultimi album, lo zampino di O ‘Neill nei concept e nei suoi consigli era presente. Ed erano loro due ad avere maggior interesse per l’opera, gli elementi sinfonici, i musical e le melodie più dolci e da ballad vecchio stile; insomma, è probabile che in un modo o nell’altro i loro interessi avrebbero comunque fatto convergere la musica savatiana verso certe sonorità, naturalmente in ogni caso sarebbero state però con tutta ragione maggiormente heavy e d’impatto per via del tocco di Criss, più orientato verso il metal con il suo stile duro e graffiante.

NUOVE USCITE
Filastine & Nova
Post World Industries
Montauk
Labellascheggia
Paolo Spaccamonti & Ramon Moro
Dunque - Superbudda
Brucianuvole
Autoprod.
Crampo Eighteen
Autoprod..
BeWider
Autoprod..
Disemballerina
Minotauro
Accesso utente