Voto: 
4.8 / 10
Autore: 
Gioele Nasi
Genere: 
Etichetta: 
Emi America
Anno: 
1984
Line-Up: 



- Anthony Kiedis – Voce

- Michael “Flea” Balzary – Basso

- Cliff Martinez – Batteria

- Jack Sherman – Chitarra



Guest:

- Hillel Slovak – Chitarra su “Baby Appeal”



Tracklist: 

1. True Men Don’t Kill Coyotes

2. Baby Appeal

3. Buckle Down

4. Get Up and Jump

5. Why Don’t You Love Me

6. Green Heaven

7. Mommy Where’s Daddy

8. Out in L.A.

9. Police Helicopter

10. You Always Sing the Same

11. Grand Pappy Du Planty

Red Hot Chili Peppers

The Red Hot Chili Peppers

I Red Hot Chili Peppers, oggi un’istituzione nel panorama Rock internazionale, nascevano attorno agli inizi degli anni ’80 a Los Angeles, California, dall'unione e dall'amore per la musica di quattro ragazzi, quattro freaks, quattro pazzi, compagni di classe alla Fairfax High School. Innanzi tutto c’erano Anthony Kiedis (vocalist) e Michael “Flea” Balzary (basso), amici per la pelle e struttura portante della band per i vent’anni (e più) a seguire. Loro due si esibivano per i locali di L.A. con il duo “Tony Flow And The Miraculosly Majestic Of Mayhem”, cui spesso si univano altri due loro compagnoni: Hillel Slovak (chitarra) e Jack Irons (batteria, suonerà anche con i Pearl Jam negli anni ‘90). Hillel e Jack, al tempo, dedicavano però la maggior parte del tempo al loro progetto What is This, con cui proponevano un rock à la Kiss o Led Zeppelin.

La formazione a quattro, rinominata Red Hot Chili Peppers, incendiava i clubs di Los Angeles con le sue performances eccellenti e sconvolgenti (tutti conosceranno gli aneddoti relativi ai vari concerti in cui i Peppers si esibivano nudi, coperti solo con dei calzini posti “tatticamente”: da lì il famoso ed osceno soprannome, per la loro musica, di “Cock Sock Rock”): è questa la formazione che suona quell’ intreccio di Rock, Funk, Punk e Rap, la formazione che si fa un nome passando le nottate nei locali della Città degli Angeli, è questa la formazione con cui si inizia a buttar giù le idee per i primi pezzi – ma non sarà questa la formazione con cui sarà registrato questo primo disco, l’omonimo debut dei peperoncini.
Infatti i Red Hot (Anthony e Flea) firmano per quattro dischi con la major americana EMI (la fama se l’erano fatta, a furia di suonare...), ma contemporaneamente i What is This di Hillel e Jack si accordano con la MCA – con la quale pubblicheranno tre dischi fra l’84 e l’85.
Che fare? Slovak e Irons credevano ancora parecchio nel loro progetto, e non si sentono di mandare all’aria il loro gruppo: i due amici Anthony e Flea allora chiamano a registrare il disco d’esordio dei Red Hot Chili Peppers due guests, Cliff Martinez alla batteria e Jack Sherman (session guitarist piuttosto conosciuto all’epoca nel circuito losangelino) alla chitarra.

Purtroppo la cosa non funziona. Tra i due membri originali e i due ospiti manca l’affiatamento, manca la coesione, manca la voglia di incendiare. I due non s’integrano nella band; Cliff e Flea (ovvero la coppia ritmica) manca poco perché sembrino due estranei che vanno per fatti loro, Sherman è eccessivamente perfetto nelle sue parti, svolge il suo “compitino” senza calarsi nel ruolo, e lì si ferma. Anthony prova a gettarsi nella mischia con le sue interpretazioni personalissime, ma spesso la cosa gli riesce a metà: da momenti stuzzicanti di grande personalità si passa ad altri in cui si sente la mancanza d’esperienza del giovane (allora ventiduenne) Kiedis.
Oltretutto la produzione dell’inglese Andy Gill (membro dei Gang of Four, un altro gruppo che all’epoca proponeva un suono funk/rock) è scandalosamente povera e “liscia”, e comunica tutto tranne la potenza e l’energia che erano motivo di vita per i tumultuosi RHCP degli inizi. Anche qui, deciso fiasco.

Sono esemplari in questo senso episodi come l’ultima Grand Pappy du Plenty, sconcertante nel suo non andare da nessuna parte, o Mommy Where’s Daddy, irritante nel suo continuo rimandare l’esplosione dei suoni.

Il funky-rap-rock dei quattro (due?) ragazzi è ancora in erba, pare “indeciso”, non consapevole di quale sia la direzione da perseguire.

Comunque presenti brani di buon livello come Buckle Down o Green Heaven, la quale seppure molto lenta vive su buone parti di chitarra e una voce sensuale di Anthony. Anche la storica Out in L.A non dispiace assolutamente, anzi, grazie alla buonissima prestazione di Flea e al cantato imprevedibile di Anthony: rimane comunque il rimpianto di cosa “sarebbe potuto essere” con una produzione più potente e il suono caldo e pazzo di Hillel alla chitarra.
Police Helicopter ha dei buoni intrecci ritmici di chitarra e basso, ma la durata infima (1.16) non le permette di decollare decorosamente. Le altre (tra cui una cover di Hank Williams) si dimenano fra l’anonimo e il sonnolento, e non risultano degne nemmeno di citazione.

I due migliori episodi sono, senza dubbio alcuno, la catchy Get Up and Jump, in cui finalmente i Peppers riescono a esplodere e non a “implodere” come nel resto del cd, e la bella opener, simil-country, True Men Don’t Kill Coyotes, dal refrain da cantare allegramente in coro, mentre Sherman esegue in modo impeccabile (quanto freddo ed impersonale) le sue parti.

“The Red Hot Chili Peppers” è un disco immaturo che scorre via senza lasciare soddisfazione, né voglia di riascoltarlo, se si escludono alcuni episodi isolati.
I peperoncini, dimezzati e “chiusi” in questa limitante studio-version, non riescono ancora ad esprimere il loro enorme potenziale: l’esordio, anche per chi (come me) ama i Peppers degli inizi, è in sostanza un gran bel flop, specialmente se confrontato con gli ottimi lavori che seguiranno.

Quasi anonimo, e per un gruppo dalla simile personalità non ci può essere bocciatura peggiore...

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