Voto: 
4.5 / 10
Autore: 
Alessandro Mattedi
Genere: 
Etichetta: 
Lifeforce Records
Anno: 
2006
Line-Up: 

:
- Kasper Thomsen - voce
- Jeppe Christensen - tastiere, voce
- Lars Christensen - chitarra
- Jesper Andreas Tilsted - chitarra, tastiere
- Jesper Kvist - basso
- Morten Toft Hansen - batteria


Tracklist: 

:
1. This Legend Forever
2. Abandon Your Hope
3. Phantoms
4. The Curse of Bravery
5. Remembrance
6. Live the Myth
7. City of Hurt
8. Persistence
9. The Velvet Remains
10. Farewell to Devotion

Raunchy

Death Pop Romance

La prima fatica dei Raunchy successiva al cambio di label, è Death Pop Romance, disco che insiste sui soliti cliché del metal un po' melodico un po' core/thrashy e che non porta alcuna ventata d'aria fresca nella discografia dei danesi, anzi. Banalmente e molto prevedibilmente incentrato ancora sulla solita sequenza di riffoni distorti ma melodici, ritornelli orecchiabili derivativi, produzione laccata e linee vocali ora dure e cattive, ora morbide e sensibili, questo disco non fa altro che riciclare quanto già detto plurime volte non solo dal gruppo stesso ma anche da molti altri, condendo il tutto con la solita vena ultramelodica che però invece di valorizzare l'impatto e la trascinantezza delle canzoni non fa altro che appiattire le stesse, girando sempre attorno al medesimo inconsistente schema compositivo.
Il tutto cerca di risultare accattivante, ma appare solo terribilmente piatto e scontato. Poche idee malsfruttate ed un eccessivo ricalco di sonorità trite e ritrite fanno affogare i Raunchy nel mare della ridondanza e dell'easy-listening fine a sè stesso. Gli scandinavi divengono così delle meteore nel panorama metal, rapidamente catturate da una parabola discendente che ne ha snaturato e progressivamente affievolito gli aspetti positivi mostrati in precedenza.
Apprezzabili in ogni caso la scioltezza e la scorrevolezza dell'ascolto, mai in ogni caso indigeribile o sconnesso - ma è troppo poco.
Va segnalato inoltre il cambio di cantante, Lars Vognstrup viene rimpiazzato da Kasper Thomsen che però fa davvero poco per personalizzare la proposta del gruppo e la sua tecnica vocale.

Si comincia con il riff iniziale di This Legend Forever ripreso dai Disharmonia Mundi di Quicksand Symmetry, refrain successivi fra groove metal e metalcore, doppio pedale e vocals più bjornstrid-iane che nel chorus ricordano Mindfields dei Soilwork. Se la leggenda che dovremmo sorbirci ancora per un pochetto di tempo è quella di queste sonorità piatte e manieristicamente stantie, possiamo stare freschi. E forse in tal senso il titolo di Abandon Your Hope è emblematico, mentre le clean vocals ricalcano quelle di millemila gruppi di rock/metal moderno americani.
Si passa a Phantoms con spunti melodici ed elettronici che, seppur non molto originali, si lasciano ascoltare, ma ecco che ritornano i riffacci scontati e il ritornello che sa fin troppo di già sentito. In The Curse of Bravery i Raunchy cercano di suonare più cattivi, ma con la produzione del disco il doppio pedale è troppo poco potente e fallisce nell'intento. Avrebbero fatto meglio i connazionali Mnemic, in ogni caso ci sono diversi spunti di tastiera godibili (ma, purtroppo, sporadici), mentre le vocals del ritornello ricordano ora Maynard dei Tool, ora Anders Fridèn degli In Flames.
Remembrance e Live the Myth non aggiungono nulla, se non qualche piccolo stanco riff ripreso dal metal di Gothenburg con un piglio più prossimo allo Swedecore, al punto che i titoli sono probabili allusioni al rimembrare stilemi altrui e continuare a viverne i fasti con poco apporto creativo e reinterpretativo.
Seguono City of Hurt, Persistence, The Velvet Remains e Farewell to Devotion che insistono sui canonici cliché stilistichi (attacco thrash/metalcore, ribassamento da groove thrash, uno o due bridge che ricalcano parzialmente il melodic death metal più stemperato, tastiere plasticose, ritornello ultracatchy con alternanza di clean vocals e canto urlato e banalissimo doppio pedale a far più pesante senza riuscirci più di tanto) e hanno pochi spunti apprezzabili fra atmosfere particolari o qualche riff dal piglio trascinante, concentrati maggiormente sulla penultima canzone.

Un album deludente e che mette in evidenzia i limiti creativi della formazione di Århus, troppo ancorata su stilemi strafritti e che hanno poco da dire in questa veste, con l'unico risultato di sfornare un disco blando, stucchevole e noioso.
Consigliato ai fan del gruppo e di queste determinate sonorità che ne cercano un'ennesima riproposizione con produzione suggestivamente pulita, chi è in cerca di qualcosa di molto più originale passi oltre.


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