Voto: 
7.8 / 10
Autore: 
Enrico Pe
Genere: 
Etichetta: 
Epic
Anno: 
1994
Line-Up: 

- Eddie Vedder - voce, chitarra

- Stone Gossard - chitarra, voce

- Jeff Ament - basso, voce

- Mike McCready - chitarra

- Dave Abruzzese - batteria




Tracklist: 

1. Last Exit

2. Spin The Black Circle

3. Not For You

4. Tremor Christ

5. Nothingman

6. Whipping

7. Pry, To

8. Corduroy

9. Bugs

10. Satan’s Bed

11. Better Man

12. Aye Davanita

13. Immortality

14. Hey Foxymophandlemama, that’s me

Pearl Jam

Vitalogy

Con la loro discografia centra poco, ma Kurt Cobain, l’idolo degli appassionati rock, si fa saltare le cervella. Molti decretano con questo gesto la fine del Grunge, ma perché? Allora dopo la morte di Janis, Jimi e Jim, Elvis, Lennon, Moon e compagnia bella, il Rock sarebbe dovuto sparire dalla circolazione? Una riprova è Vitalogy, terza fatica discografica del quintetto di Seattle, forse il loro album più Grunge sia nei suoni che nelle composizioni. Se Kurt era un debole, Eddie e compagni sono forti, riescono a superare le difficoltà, disco dopo disco, anno dopo anno, concerto dopo concerto. Questo album è davvero variopinto, a tratti bizzarro; la prima stranezza è la sua pubblicazione prima su vinile ed in seguito su cd, poi l’assenza del nome della band sulla copertina dello stesso.

Il disco si apre con un intro nel quale sembra che il gruppo stia accordando gli strumenti prima di attaccare col mid-tempo di Last Exit, canzone dalla durata di poco più di due minuti, dal testo criptico che usa la solita metafora dell’oceano e del surf. Già dalle prime note si sente un retrogusto Grunge, un suono a la Screaming Trees e Mudhoney. Il singolo di Vitalogy è Spin The Black Circle, un’accelerata decisamente sul Metal dal potere radiofonico nullo. Sembra un invito all’uso smodato del vinile. Not For You è un altro mid-tempo grunge con la voce di Vedder, come nelle prime due tracce, quasi al vetriolo, tipicamente Punk. Questa canzone è senza dubbio dedicata alla memoria dello scomparso Cobain, citarne una frase sarebbe impossibile, il testo rende splendidamente per intero. Davvero una bella dedica. Una delle canzoni preferite dal pubblico è Tremor Christ, dal testo splendido ed evocativo; musicalmente sembra fare ondeggiare l’ascoltatore, non come in Ten, ma al limite del mal di mare. Jeff per questo disco ha sfornato una delle canzoni più delicate del repertorio del quintetto di Seattle: Nothingman. Il patos lo si raggiunge nel finale dove i Pearl Jam ci tengono in sospeso mentre Eddie canta “Into the sun.. ah, into the sun...”. I nostri tornano all’attacco con Whipping, pezzo che non spicca il volo ma si mantiene sempre sulle stesse ritmiche.

La prima stranezza di Vitalogy è la cortissima Pry, To: un semplice riff di chitarra che si dissolve subito dove Vedder declama “P-R-I-V-A-C-Y is the priceless to me”, secondo avvertimento ai media dopo Blood in Vs. La prima vera gemma dell’album è Corduroy dove il cantante sembra ancora una volta rifiutare il successo arrivando a dire che “finirò solo come quando ho cominciato”. Musicalmente parlando è strutturata da un riff semplice che si interrompe nel mezzo prima dell’assolo. La seconda stranezza di questa raccolta è il cabaret di Bugs che si adatta benissimo al testo da incubo, davvero impressionante, soprattutto se ha disgusto degli insetti. Quattro frustate introducono un altro pezzo metallico scritto da Gossard, sorretto dai soliti riff a “singhiozzo” e con un testo davvero strano e perverso. Un'intro introduce una seconda perla di rara bellezza: Better Man, un brano scritto da Vedder quand’era ancora un ragazzino, al quale, grazie ai suoi compagni d’avventura, è riuscito a dare una forma. Alcuni pensano che parli di Jimmy, il protagonista di Quadrophenia, Rock Opera degli Who, altri pensano che parli ancora di se stesso e, più o meno, dello stesso episodio di Alive; la risposta ai posteri.

La terza stranezza contenuta in questo variopinto scrigno è Aye Davanita, un Rock latino che potrebbe rasentare anche la Psichedelia, e non avendo un vero e proprio testo ricorda nella forma quella Pow R. Toc H. presente nel primo lavoro dei Pink Floyd. Se si è sentito parlare di un capolavoro su questa terza fatica dei Pearl Jam, sicuramente è Immortality, un pezzo davvero toccante in cui la voce, come in Corduroy e Better Man, è soave come un tempo. In questa canzone tornano anche i tipici assoli Hendrixiani di McCready a renderla ancora più emozionante.
Il disco si chiude con l’ennesima stranezza: Hey Foxymophandlemama, that’s me, una traccia di quasi otto minuti di pura Psichedelia: riff assillante, distorsioni Woodstockiane al limite del mal di denti, voce filtrata e testo incerto. Se Gossard voleva aggiungere qualcosa di veramente pazzo e spontaneo, c’è riuscito in pieno.

Uscita prima su vinile, nome del gruppo non presente sulla copertina: o è un modo per farsi notare o per passare inosservati. si potrebbe optare sulla seconda ipotesi perché i Pearl Jam non hanno bisogno di altra luce, brillano già come non mai, e per alcune canzoni contenute qua dentro sarebbe bastato solamente una custodia grigia. Le stranezze non si limitano alle due sopracitate, c’è da aggiungere che il titolo dell’album è tratto da un vecchio libro nel quale erano presenti informazioni inutili e scontate, il che evidenzia l’ironia dell’ensamble.
Un 78 perché pur essendo un bell’album non è ai livelli di Ten e Vs: le canzoni non si amalgamano molto bene anche se il suono cerca di renderle compatte.

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