Voto: 
5.5 / 10
Autore: 
Damiano Cembali
Etichetta: 
INO Records
Anno: 
2008
Line-Up: 

- Paul “Sonny” Sandoval - voce
- Marcos Curiel - chitarra
- Mark “Traa” Daniels - basso
- Noah “Wuv” Bernardo - batteria


Tracklist: 

1. Addicted
2. Shine With Me
3. Condescending
4. It Can't Rain Everyday
5. Kalifan-Eye-A (feat. Mike Muir)
6. I'll Be Ready (feat. Marley Girls/The Melody Makers)
7. End Of The World
8. This Ain't No Ordinary Love Song
9. God Forbid (feat. Page Hamilton)
10. Roman Empire
11 When Angels & Serpents Dance
12 Tell Me Why
13 Rise Against

P.O.D.

When Angels and Serpents Dance

Payable on death o Payable are dead? E’ una questione drammatica ma allo stesso tempo inevitabile, dopo l’ascolto di un album così sorprendente e allo stesso tempo scellerato come When Angels And Serpents Dance, ultima fatica dei P.O.D.. Ben più di una fisiologica evoluzione stilistica, ben oltre una disattesa svolta musicale, l’ultimo lavoro della band di “Sonny” Sandoval rigetta quasi in toto le caratteristiche distintive della sua proposta musicale, figlia meticcia della grande madre nu metal: completamente assenti le strofe rappate (non c’è nemmeno un trascurabile intermezzo che ricordi orgogliosamente la loro origine rapcore), eliminati tutti i duetti musicali rap/clean che tanto successo avevano riscosso con il precedente Testify, i 5 musicisti di San Diego si affidano ad una pulizia sonora del tutto insolita e alle volte inappropriata, a noiosi assoli di chitarra che omaggiano in malo modo uno spento Carlos Santana, a melodie non più orecchiabili ma addirittura melense, accettabili solo per l’indubbia capacità interpretativa del vocalist.

Le tracce iniziali appaiono immediatamente come la copia sbiadita dei veri P.O.D. di Satellite e Testify: Addicted, Shine With Me e Condescending presentano la medesima, sciocca struttura musicale, sono troppo limpide, troppo pulite, troppo morbide, troppo uguali. Sembra davvero di ascoltare una delle tante band di matrice sudamericana che, facendo leva su una buona qualità vocale, costruendo una discreta sezione ritmica, attingendo a piene mani da sonorità pseudo-hip-hop, vendono per grandiosamente alternativo un prodotto in realtà stucchevole e superficiale. Del resto, la scelta di Addicted e Shine With Me come singoli è quanto di più squallidamente commerciale ci si possa aspettare e si presta all’indiscutibile accusa di vigliaccheria, in quanto sono i pezzi in assoluto più derivativi e scontati di tutto l’album: sarebbe stato molto più opportuno, e senza dubbio coraggioso, puntare su brani solo parzialmente originali ma estremamente validi come It Can’t Rain Everyday, ballad piacevolmente semplice e immediata che, forte d’una malinconica atmosfera autunnale, restituisce all’ascoltatore un realistico senso di speranza e rinascita (ottima, a onor del vero, la nitida linea melodica costruita, in questo caso con doverose precisione e pulizia, da una chitarra assolutamente ispirata), o God Forbid, in assoluto la traccia più acida, dinamica e potente dell’album (efficace il contributo di Page Hamilton, ex chitarrista e cantante degli Helmet), che tuttavia, sciaguratamente collocata al 9 posto nella tracklist, degenera in un tentativo ormai velleitario di togliere dalla bocca lo sgradevole sapore di dolcificante artificiale lasciatoci in eredità dall’inconcludente This Ain’t No Ordinary Love Song.

L’unico pezzo che si possa veramente ascrivere alla storia dei P.O.D. è, a tutti gli effetti, la poderosa The End Of The World, dove un cantato semi-rappato nelle strofe, sostenuto da una solida batteria e un soffuso arrangiamento di violini, cede il passo ad un inciso prettamente clean, con un inatteso coro a sottolineare ulteriormente il più tradizionale stile dei 5 californiani. Niente male, a dire il vero, nemmeno la traccia conclusiva, Rise Against, molto intuitiva nelle sue sonorità malinconiche e spagnoleggianti ma assolutamente adeguata al delicato ruolo dei saluti finali.

E’ questo, in effetti, ciò che più irrita all’ascolto di When Angels And Serpents Dance: una mediocrità generale che non si fa odiare per eccesso di sperimentazione (non si dica innovazione: è parola troppo alata) né si fa amare in quanto curata riedizione di uno stile ormai pienamente sviluppato e consolidato (Testify, in questo caso, ne è tangibile controesempio). Gli episodi più decisamente negativi dell’opera in questione, infatti, non sono così numerosi come si potrebbe dedurre dalle mie precedenti disquisizioni: oltre alla già citata This Ain’t No Ordinary Love Song, piatta fin quasi all’agonia, senza dubbio I’ll Be Ready, col riprovevole coro delle Marley Girls a suggellare alla perfezione l’inutilità, o meglio, l’incapacità di affrontare con sufficiente bravura l’ennesimo omaggio reggae. Al contrario, è d’obbligo segnalare l’ottima riuscita di un pezzo esclusivamente acustico come Tell me why, dove la voce leggera di Sandoval accompagna coi suoi colori più delicati una soffice trama di chitarre classiche e violini, ottimamente valorizzati ad un appropriatissimo effetto-carillon.

Sicuramente controverso e meritevole di un’analisi più approfondita è, infine, Kaliforn-Eye-A, nell’economia della quale risulta sicuramente incisiva la collaborazione di Mike Muir dei Suicidal Tendencies: i suoi brevi interventi in spoken, posti in sottofondo al preciso cantato di Sandoval, si inseriscono in maniera graffiante e puntuale su una base ritmica estremamente secca e travolgente; fa storcere il naso, tuttavia, il breve intermezzo centrale nel quale le sue “angosciose” grida interagiscono sì perfettamente col resto della struttura musicale, ma finiscono col risultare eccessivamente “dirompenti” e “punk”, nonostante sia decisamente apprezzabile il cambio di ritmo della batteria. Sia chiaro, questo dettaglio non pregiudica certamente un giudizio di per sé positivo del pezzo, pur tuttavia può considerarsi un piccolo neo che, nel contesto di un album tutt’altro che esaltante, si amplifica ad ulteriore danno di quest’ultimo.

Volendo tirare le somme in maniera coerente e precisa, diventa quindi necessario adottare una di queste 2 premesse: in un caso, infatti, possiamo considerare When Angels And Serpent Dance un album chiuso e completo in sé stesso, un singolo e definito episodio dell’ormai decennale carriera dei P.O.D.; nel secondo, invece, possiamo considerare quest’ultimo lavoro come un’interlocutoria tappa di avvicinamento ad un altro prossimo capitolo, dunque per questo, nei suoi evidenti limiti, giustificabile. Una simile scelta, oltre che dalle proprie personali convinzioni, non può che derivare da un’eventuale pregiudizio, positivo o negativo che sia, sulla loro precedente produzione: nonostante la cocente delusione per un album che, con la doverosa eccezione di qualche buon momento, risulta per lo più sbiadito e insipido, non si esita a credere che When Angels And Serpents Dance sia semplicemente un passo molto (ma molto) incerto sulla loro futura via musicale. Si preferisce dunque non abbandonarsi ad una bocciatura definitiva ma, con un pizzico di sano buon senso, rimandare il giudizio alla prossima pubblicazione: nel caso in cui queste speranze si riveleranno assolutamente infondate, la stroncatura di un tale (doppio) scivolone sarà ancor più implacabile.

NUOVE USCITE
Filastine & Nova
Post World Industries
Montauk
Labellascheggia
Paolo Spaccamonti & Ramon Moro
Dunque - Superbudda
Brucianuvole
Autoprod.
Crampo Eighteen
Autoprod..
BeWider
Autoprod..
Disemballerina
Minotauro
Accesso utente