Voto: 
6.5 / 10
Autore: 
Andrea Evolti
Etichetta: 
Inside Out/Audioglobe
Anno: 
2006
Line-Up: 

- Jim Matheos - chitarra
- Kevin Moore - tastiera, voce
- Joey Vera - basso
- Mike Portnoy - batteria


Tracklist: 

1. Sure You Will
2. Free
3.Go
4. All Gone Now
5. Home Was Good
6. Bigger Wave
7. Kicking
8. Better
9. Simple Life
10. Once 11. Our Town

O.S.I.

Free

Fascinosa come il monicker, la copertina di Free, il secondo capitolo del progetto parallelo di Jim Matheos, nasconde verità e sorprese che possono lasciare spiazzati gli ammiratori del chitarrista e mente dei Fates Warning. Le sorprese sono, in primis, i compagni d’avventura di Jim, una specie di riunione di famiglia: il bassista degli stessi Fates Warning, Joey Vera, Kevin Moore, ex-tastierista (e per molti ‘Il Tastierista’) dei Dream Theater, che già chiese la cooperazione di Jim per il suo progetto Chroma Key e che fu guest su due gioielli dei Fates Warning, Perfect Simmetry e A Pleasant Shade Of Gray. Per finire, Mike Portnoy alla batteria in alcune delle 11 tracce di questo lavoro, quelle con un drumming non programmato dai sampler…ecco, il punto è questo!

Scordatevi le band di provenienza dei singoli componenti; la title-track, All Gone Now o Bigger Wave mostrano una band dedita ad un rock ‘progressivo’ nel più ampio e sperimentale senso del termine. Oltre all’uso di campionamenti e looping, la scrittura dei pezzi si concretizza in brani che hanno il forte sapore di una colonna sonora per un film di spionaggio (attenzione, non è un concept…non c’è nessuna storia precisa che lega le track tra di loro), dove ritmi lenti e sincopati, atmosfere metropolitane e leggermente claustrofobiche possono addirittura far pensare a formazioni come Portishead o anche Massive Attack, unite a certi sprazzi di rock cantautoriale americano come Leonard Cohen, il suo corrispettivo britannico Morrisey oppure, come nella conclusiva e bellissima (il pezzo più bello del disco) Out Town, a Cat Stevens. Le chitarre elettriche sono leggerissime e graffiano pochi e minimali accordi, come singhiozzi che interrompono un pianto soffuso, mentre nei momenti in cui appare la batteria di Portnoy i ritmi sono anch’essi scarni e volti a supportare, assieme al basso di Vera, le atmosfere ‘velatamente’ torbide delle tastiere di Moore e, soprattutto, la voce narrante di questi capitoli di metropolitana solitudine…la voce dello stesso Moore. E’ lui, infatti, che fa da singer in questo disco, con poche note, spesso quasi delle spoken words, asciutta, intimista fino al limite dell’ermetismo; quasi la voce di un ex-agente C.I.A. che confessa operazioni ed omicidi alla moglie o ad un famigliare di una delle loro vittime…oppure, più duro ancora, a se stesso! Non è un album facile da digerire e, personalmente, il giudizio non è esaltante, ma la motivazione è una questione di gusti personali, oltre che ai dubbi sulla scelta di Moore come cantante e sull’eccessivo minimalismo strumentale. Di certo, è un album che, se ascoltato, richiede pazienza ed il giusto stato d’animo.

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