Voto: 
5.0 / 10
Autore: 
Alessandro Mattedi
Genere: 
Etichetta: 
Warner Bros/Helium 3
Anno: 
2009
Line-Up: 

- Matthew Bellamy – vocals, guitars, keyboards, synthesizers, programming, production
- Christopher Wolstenholme – bass, vocals, production
- Dominic Howard – drums, percussion, synthesizers, programming, production

Session musicians:
- Edodea Ensemble; orchestra, conducted by Audrey Riley and led by first violinist Edoardo de Angelis
- Enrico Gabrielli – bass clarinet on "I Belong to You"
- Tom Kirk – handclaps and football hooligan noises on "Uprising"

Tracklist: 


1. Uprising
2. Resistance
3. Undisclosed Desires
4. United Sates of Eurasia/Collateral Damage
5. Guiding Light
6. Unnatural Section
7. MK Ultra
8. I Belong to You
9. Exogenesis: Symphony part I (Overtures)
10. Exogenesis: Symphony part II (Cross-Pollination)
11. Exogenesis: Symphony part III (Redemption)

Muse

The Resistance

Esuberanti, sensazionalisti, enfatici, scioccatori.
Se all'inizio venivano considerati i loro eredi più catchy e aggressivi, col tempo i Muse sono diventati dei veri e propri anti-Radiohead, e l'ultimo album The Resistance sembra addirittura andare oltre in ciò rimescolando le carte in gioco anche rispetto a loro stessi. Il disco (registrato nei pressi del Lago di Como, per dire, quando si parla di creare hype...) ridimensiona l'evoluzione del precedente Black Holes and Revelations, il loro disco più "semplice" e pop-oriented, per darsi ad un idefinito collage di tendenze sonore alla lunga sbrodolato.
Il fatto è che da un lato emerge un conflitto fra le differenti anime che vengono infuse in questo lavoro: quella dell'alt rock effettato, quella della magniloquenza queeniana (i Queen sono citati ed imitati in alcuni momenti più che mai), quella dell'apertura meno riffocentrica e più elettronica, quella classicista. Non sempre la sintesi riesce, anzi alle volte i vari elementi entrano in conflitto tra loro sfociando in una spiacevole disomogeneità (e discontinuità); dall'altro lato c'è che questo assemblaggio ridondante e vago di sonorità è accompagnato dalla sensazione che queste siano state messe insieme più per esaltare (e amplificare) il trionfalismo già intrinseco del gruppo che per sperimentare nuove vie, soprattutto quando viene messa in mostra nel sound degli inglesi una vena neo-classica preponderante e riecheggiante certo rock barocco settantiano.
A conti fatti dal predecessore permane ancora l'attitudine vagamente kitsch di Bellamy a guidare questo gira-la-moda di sonorità, corroborata dai vari spunti musicali, emergendo spesso in divagazioni ampollose ai limiti fra esuberanza ironica e pretenziosità male assortita. In ogni caso se questo è il progressive pop del 2000, va detto che i Muse ne incarnano l'essenza, risultando inaspettatamente, a modo loro, naturali in quel che fanno.

Uprising mantiene la tradizione effettistica del gruppo con bassi ipnotici, sintetizzatori trascinanti (e vagamente eighties) e distorsioni secche per la chitarra, relativamente in secondo piano rispetto al solito. L'incedere un pizzico ballabile e l'atmosfera leggera rendono la canzone orecchiabile e scorrevole, forse troppo per incidere realmente considerata anche la sua leggera ripetitività.
La title-track Resistance inizia con tappeti ambientali dal sapore cosmico e malinconico, ai quali si sovrappongono azzeccati giri melodici di tastiera e le percussioni leggere ma frenetiche. Rapidamente il pezzo assume un'identità particolare: ci sono i picchi d'enfasi alla Absolution, l'energia degli U2 ma soprattutto il melodismo dei Queen, evidente in particolar modo nel coretto dietro a Bellamy. Non è un citazionismo parodista quello per la band di Mercury, gli inglesi vogliono far di tutto ciò materia propria.
A rendere ancora più indefinita la personalità del disco in questa sua prima parte è poi Undisclosed Desires, dove fra bassi funky, tanto pop, r'n'b ed anima electro-synth sembra di sentire in parte Timbaland, in parte certi Depeche Mode più moderni. Ci sono spunti melodici apprezzabili sparsi qua e là, ma il complessivo è troppo piatto e sbiadito per essere riuscito.
United States of Eurasia ritorna a bussare dai Queen, e lo fa in maniera tanto vistosa da non poter sapere di tronfio. In certi punti sembra una copia sbiadita di Bohemian Rhapsody e Spread Your Wings, mentre un barlume di originalità viene dato dai motivetti arabeggianti nel mezzo. Poi però c'è l'outro di Collateral Damage, che è basata sul Notturno Op. 9 No. 2 di Chopin, e si finisce per avere un duplice sapore in bocca, di magnificenza e pacchianeria.
Guiding Light ha eccellenti escursioni di chitarra, ma è rovinata da una pomposità epicheggiante eccessiva.
Unnatural Selection rende fede al suo nome, è un po' una via di mezzo fra Queen, Stone Roses e System of a Down secondo la personale interpretazione dei Muse, con riff cattivi, distensioni, aura inquietante di sfondo ed eccessivi rimandi alla vecchia New Born; ma è forse il brano meglio caratterizzato e congegnato fino ad ora.
Riesce ancora migliore MK Ultra, piacevolmente fresca ed orecchiabile, anche se il ritornello manca di spessore rispetto ai giochi sonori sprigionati dal trio e soprattutto al motivo principale.
Scorre spensierata e briosa I Belong to You, un punto d'incontro fra i Muse e i Dresden Dolls, ma molto meno impegnato e più giocoso. Poi però spunta fuori una reinterpretazione dell'aria Mon cœur s'ouvre à ta voix di Camille Saint-Saëns, mentre il finale torna sulle coordinate iniziali aggiungendovi però un intrigante clarinetto basso che dona un interessante sapore gitano al brano.
La chiusura è affidata invece alla suite in tre atti di Exogenesis, per la quale ha collaborato l'EdoDea Ensemble del violinista Edoardo De Angelis. Nonostante i rimandi al prog sinfonico dei '70 possano far temere un eccesso di manierismo, la miscela è inaspettatamente riuscita, toccando alcuni dei vertici d'ispirazione dell'album.
Overture è una riuscita stratificazione d'archi taglienti, chitarre caustiche e gelido battito downtempo di sottofondo. Forse è un po' troppo trionfale in certi momenti per suonare drammatica al 100%, ma la costruzione di questo rock orchestrale non suona mai prevedibile o stantia. Cross-Pollination invece sfodera climax emotivi di spessore, dopo quasi due minuti di placido pianoforte accompagnato dai vellutati archi, che presentano tonalità anche speranzose. Infine la timida Redemption, nella sua parte iniziale praticamente un omaggio alla musica classica dell'ottocento (le note arpeggiate rievocano leggermente la Sonata al chiaro di Luna di Beethoven, mentre quelle di contorno e l'atmosfera generale precipitano in un romanticismo malinconico e tristemente nostalgico) che sfocia poi in un pop-rock sinfonico etereo e sognante. Ancora una volta l'aspetto più piacevole è la genuinità nella composizione, in opposizione ai tratti più kitsch del resto dell'album, che rende il trittico di Exogenesis intenso, godibile e sentito.

Con un po' di approssimazione possiamo tracciare una curva crescente per questo disco, che con le sue piccole variazioni cresce col susseguirsi dei pezzi, mostrando i momenti più interessanti e credibili nella seconda metà dell'album, quelli più dubbi e blandi nella prima.
Non si può comunque dire che The Resistance non sia vario. Ciò che impedisce all'album di andare oltre la sufficienza è però proprio la sua natura simil-eterogenea, perché non c'è un vero connettore comune con cui fondere tutte le influenze in un unico stile vitale e innovativo, non c'è una certa compattezza nel songwriting che più che multisfaccettato si rivela disomogeneo, non c'è sinergia fra le parti che costituiscono il tutto. Così i Muse finiscono per aprire delle porte senza chiuderne molte, imboccano un sentiero che li porta a girare in tondo un bel po' di volte, e alla fine si rimane con la sensazione che manchi qualcosa per arrivare al punto dove Bellamy & co. volevano andare a parare, quasi come se qualcosa li ingombrasse: forse le elucubrazioni eccessive rendono il loro stile troppo auto-indulgente, oppure i colpi più melodici ne diluiscono e annacquano le potenzialita... o forse entrambe le cose.
Un album discontinuo, ma anche a suo modo estroso, nonché, se presa in relazione al settore mainstream, una lucida prova in questo campo per un gruppo che par dire "voglio, ma non posso" nella sua ricerca del rock progressista partendo da territori molto più easy-listening, leggeri e radiofonici, e con un approccio geneticamente più portato all'enfasi che alla cerebralità.
Forse però non basta.

Certamente la maggior parte del pubblico nei confronti di quest'album si dividerà fra chi lo considererà una schifezza esibizionista e chi un capolavoro che ridefinisce i limiti del rock contemporaneo - ma in fondo anche questo spaccare gli animi, come potrebbe dire Wilde, è a modo suo un pregio.

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