Voto: 
8.8 / 10
Autore: 
Corrado Penasso
Genere: 
Etichetta: 
Capitol
Anno: 
1990
Line-Up: 

- Dave Mustaine, voce, chitarre, composizione
- Dave Ellefson, basso e voci di back-up
- Marty Friedman, chitarre
- Nick Menza, batteria e percussioni

Tracklist: 

1. Holy Wars... the punishment is due
2. Hangar 18
3. Take no Prisoner
4. Five Magics
5. Poison was the cure
6. Lucretia
7. Tornado of Souls
8. Dawn Patrol
9. Rust in Peace... Polaris

Megadeth

Rust in Peace

Fine anni 80. Il thrash metal ormai sembrava aver vissuto il suo apice creativo negli anni passati e il tutto pareva sopravvivere solamente di rendita. Le influenze più disparate stavano intaccando la genuinità del genere e di conseguenza le strutture delle canzoni di molti gruppi stavano diventando più improntate ad un groove torbido (Metallica, Testament, Overkill, Exodus, tra i principali), oppure contaminate dal nascente death metal. Pareva che solamente pochi sopravvissuti potessero fronteggiare questo periodo di passaggio mantenendo alta la bandiera del puro thrash per dimostrare che nulla era ancora andato perso, nonostante l’affacciarsi degli anni 90, il decennio per eccellenza se si parla di “innovazioni”.
Tra i pochi che tenevano ancora duro c’erano, per citarne solo alcuni, gli Slayer, i quali con due lavori come South of Heaven (1988) e Season in the Abyss (1990) mettevano nero su bianco le loro intenzioni bellicose; i sottovalutati Dark Angel con Leave Scars (1989) e l’immenso Time Does No Heal (1991); i tecnici Heathen con Victims of Deception (1991) e i Megadeth di Dave Mustain con uno dei manifesti del tech thrash metal, Rust in Peace. Sì, perché tutti questi gruppi che ho elencato finora, furono tra i maggior esponenti del thrash metal suonato con tanta tecnica, i quali si andavano ad opporre in modo deciso alla svolta che il genere stava imboccando.

L’irruenza degli esordi viene diluita in una base tecnica sopraffina per il genere, roba da far ascoltare a chiunque sostenga che il metal è fatto solamente da rumore. I musicisti di molte band hanno avuto modo di crescere e maturare nel decennio che stava volgendo al termine e quindi erano anche pronti a fare sfoggio di cotale perizia tecnica per regalarci pagine veramente immortali per tutti gli appassionati di “metallo pesante”. La band di Dave a volte è stata molto sottovalutata o criticata durante la sua carriera ma sovente ci si dimentica la crescita che il nostro mastermind ha maturato, dagli esordi ancora legati al sound dei Metallica sino ad arrivare a questo album che forse neanche i Four Horsemen sarebbero stati in grado di eguagliare a livello tecnico.
A livello di line-up possiamo notare alcuni cambiamenti operati da Dave: dopo aver licenziato il chitarrista Jeff Young e il batterista Chuck Behler, il singer fece offerte a chitarristi come Dimebag Darrell e Jeff Waters e a batteristi come Dave Lombardo e Deen Castronovo, ma la risposta fu negativa. Dopo tante offerte rifiutate, Mustaine riesce a trovare due brillanti musicisti, ovvero il guitar hero Marty Friedman, noto per aver suonato nei Cacophony, e il giovane Nick Menza, tecnico della batteria del dipartito Chuck Behler che prende il posto di quest'ultimo.

Come potete notare, con una formazione di questo calibro, non si poteva non avere un capolavoro di tecnica sopraffina unita all’irruenza del thrash migliore. Le danze si aprono il riff galoppante, inconfondibile di una tagliente Holy Wars... The Punishment Due, critica governo di George H. W. Bush, che ordinò l’attacco bellico al regime di Saddam Hussein, scatenando la Guerra del Golfo.  Le partiture di chitarra si alternano sapientemente portando la batteria a cambiare sovente tempo, assestandosi comunque su tempi medi per la prima parte della durata. La voce di Dave è inconfondibile, acida come sempre mentre la sua chitarra trascina con se una grande dose di groove, specialmente nella sezione centrale ove trovano spazio un solo di rara bellezza, prima che gli up tempo prendano il sopravvento per un finale col botto.
È incredibile constatare come la pulizia del suono faccia sì che si noti una gran perizia d’esecuzione delle due chitarre. Si prosegue con l’intricatissima Hangar 18, classico dal flavour progressivo nel riffing e dall’andamento meno impulsivo. I duetti di chitarra si sprecano e le fasi soliste non sono mai state così fluide, melodiose e perfettamente abbinate alla sezione ritmica con un basso che continua a macinare note creando un vero e proprio muro in sottofondo. Marty Friedman e Dave Mustaine ci regalano duetti che rimandano ai sottovalutati Cacophony e anche grazie a questi virtuosismi la canzone in questione è stata inserita nel videogioco Guitar Hero II al livello più difficile.  La descrizione del D-Day trova spazio tra i riffs arrembanti di una veloce Take no Prisoners, sfuriata a compensare i tempi meno impulsivi della canzone precedente. Da notare in questo caso l’ottimo lavoro svolto dietro le pelli di Nick Menza, il quale si lancia a capofitto in veloci sferzate di doppia cassa tra partiture di chitarra in continuo cambiamento grazie a riffs rocciosi e sempre fantasiosi. Il mood dark di Five Magic accompagna bene un testo trattante la magia e l’occultismo, mentre musicalmente parlando possiamo fare un plauso al lavoro del basso e delle chitarre che duettano alla grande, specialmente nella prima parte, per poi lanciarsi un riffs più taglienti in occasione del ritornello, portando con loro alcuni up tempo di batteria. Dopo un’introduzione più oscura, ecco che il puro speed metal esplode con Poison Was the Cure senza che le influenze progressive abbandonino il sound, specialmente durante la parti più rallentate per un episodio piacevole ed utile a infondere dinamismo alla proposta musicale dell’album.
Lucretia è sicuramente tra i cavalli di battaglia dei Megadeth ed il suo riffs melodioso posto in apertura è giustamente riconosciuto come uno dei manifesti del gruppo. Il groove è possente e la voce di Dave molto flessibile. Tornado of Souls si distingue per i vari cambi di tempi e per il riffing in costante bilico tra rabbia e spunti melodici, nonché per un ritornello che ti si conficca in testa per non uscirne più. I tempi sono medi e, quindi, ottimi per costruirci sopra un riffing sempre vario ed ispiratissimo. L’apice lo si raggiunge con l’assolo del funambolico Friedman.

Ci si avvicina alla fine del disco con l’oscura Dawn Patrol, ove la voce narrante di Dave descrive i possibili disastri portati dal nucleare. Accompagnamento fornito solamente dal basso e dalla batteria. Così il disco presto volge al termine con Rust In Peace... Polaris, roccioso mid-tempo dall’atmosfera apocalittica a chiusura di un lavoro che si meritò anche un disco di platino. Tra gli ultimi vagiti di quello che il thrash poteva ancora offrire allora, Rust in Peace è un capolavoro che tutti gli amanti del genere dovrebbero conoscere. Purtroppo di lì a breve anche Dave si sarebbe poi fatto influenzare dagli anni 90, abbandonando queste sonorità per seguire molti altri suoi colleghi.  

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