Voto: 
7.7 / 10
Autore: 
Alessandro Mattedi
Genere: 
Etichetta: 
Roadrunner Records
Anno: 
2003
Line-Up: 

- Robert Flynn - voce, chitarre
- Phil Demmel - chitarre
- Adam Duce - basso, voce secondaria
- Dave McClain - batteria

Tracklist: 

1. Imperium
2. Bite the Bullet
3. Left Unfinished
4. Elegy
5. In the Presence of My Enemies
6. Days Turn Blue to Gray
7. Vim
8. All Falls Down
9. Wipe the Tears
10. Descend the Shades of Night

Nota: nella release americana è disponibile una bonus track, Seasons Wither, rilasciata esclusivamente per il continente come "compenso per i fan che hanno dovuto attendere tanto".

Machine Head

Through the Ashes of Empires

Uno dei più popolari gruppi del sottogenere groovy thrash metal, i Machine Head capitanati da Rob Flynn sono saliti sull'altare della cronaca per essere passati dalle brucianti ed esaltanti (seppur non rivoluzionarie del tutto) sonorità di Burn My Eyes a dischi maggiormente sporcati da elementi nu metal e alternative metal (The Burning Red), genere che durante il suo periodo di maggior espansione affascinò i membri della formazione statunitense che ne rimasero piacevolmente colpiti e lo integrarono nel proprio stile, il quale nel frattempo si evolveva e personalizzava. Quest'influenza tuttavia risultò indigesta ai fan più duri e puri che trattarono con diffidenza il gruppo, il quale, complice anche la decadenza delle correnti alternatìve pesanti, meditò sul proprio status.

Dopo un disco pesante ma moderno come il significativo Supercharger (che per la verità anticipava già alcune caratteristiche del suo successore), nel 2003 con l'epoca d'oro del nu metal finita da tempo - ed il genere stesso sul punto di implodere - i musicisti di Oakland (ai quali si aggiunge l'axeman Phil Demmel, voluto da Flynn con cui ha suonato nei Vio-Lence) decisero così di rigettare gli elementi che avevano tinto la loro musica e fare qualche passo indietro verso un thrash potente, incalzante e un pizzico volutamente di maniera, pubblicando Through the Ashes of Empires. Questo lavoro è puro groove metal granitico e tagliante come pochi, senza certe contaminazioni che divisero il pubblico in due; un'opera che sprigiona carica e adrenalina da tutti i pori, proponendo una miscela di riff esplosivi e martellanti, batteria micidiale e carisma da vendere, il tutto immerso in un recipiente saturo della solita tecnica altissima (che viene anzi dilatata visibilmente) e della consueta aggressività mista ad un dinamico senso della melodia che hanno contraddistinto i Machine Head in tutta la loro carriera. Un disco esplosivo, strepitoso, dal songwriting grandioso, insomma.
D'altro canto, è anche un lavoro che inciampa per quanto riguarda l'originalità e l'innovazione, in quanto ritorna a livello stilistico verso il passato del gruppo aggiungendovi inoltre diversi spunti più tendenti ad alcuni stilemi metal antecedenti in diversi frangenti, scelta in parte conservativa che fa un po' storcere il naso per l'aver accantonato i cambiamenti registrati dal gruppo in questi anni (a meno di essere fan di vecchia data desiderosi unicamente di un approccio del genere) come se non contassero più ora che la corrente da cui si ha preso ispirazione è "tramontata" e per lo strizzare l'occhio al nascente trend americano di recuperare stilemi neo-thrash/groove/core/quelchevolete, sentiero di maggior presa.
Non si tratta comunque di un abbandono totale, se questo full-lenght riprende l'aggressività di Burn My Eyes e la cupezza e la pesantezza di The More Things Change, l'esperienza degli ultimi dischi lascia come retaggio una vena melodica ben apprezzabile; e comunque ad elevare i Machine Head al di sopra di gran parte dei gruppi attuali permane il loro talento innato nel proporre soluzioni d'impatto fortemente accattivanti e trascinanti.
Un disco a due livelli d'approccio che lascia un retrogusto di già sentito, come altra faccia della medaglia, ma anche molta carica e molto divertimento. Sommando mediamente i due orientamenti si procede quindi a metà strada con la valutazione finale, sicuramente ancora relativamente alta ma con la riserva che a livello concettuale, come idee, c'è un rallentamento.

Ciò non toglie che ci sono diverse hit potenzialmente eccezionali, maggiormente condensate nella parte finale del disco. Come primo passo, Imperium è un singolo che parte con un'introduzione clean lieve e cupa, a cui si aggiungono chitarre elettriche ardenti come poche, si sviluppa fra riff ora schiacciasassi ora più cadenzati ed oscuri, bridge martellanti in pieno stile thrash ed un refrain core-oriented quando la conclusione è in direttura d'arrivo. Si intrecciano fra loro un po' di elementi stereotipati, eseguiti però con una classe unica e proposti con grande potenza ed impatto, in una struttura semi-poliedrica che necessita ancora di qualche rifinitura per migliorare la coesione sonora del brano ma che risuona dirompente con i suoi attacchi micidiali - e contemporaneamente i testi iniziano ad offrire interessanti spunti sociali. Bite the Bullet è una mazzata micidiale di batteria semi-marziale nel suo impeto e riff caustici ed imponenti, riportando alla mente alcuni tratti di un disco come The More Things Change. Potrebbe diventare ripetitiva dopo un po', ma la breve durata la rende orecchiabile senza farla sembrare ridondante; piuttosto rischia di sembrare blanda quando si fa più "sborona", ma è facile immaginare che in sede live ciò dovrebbe passare in secondo piano lasciando l'esaltazione e l'impatto. Left Unfinished inizia con un dolce carillon che genera una sensazione di dolcezza condita da malinconia. Appare scontato che si tratti di un tipico luogo comune, quello della "quiete musicale" prima della "tempesta", ed infatti ecco che dopo poco più di mezzo minuto subentrano le distorsioni brucianti, gli effetti taglienti e la tecnica granitica delle chitarre di Flynn e Demmel (in alcuni sporadici riff addirittura sfiorano il death floridiano nel susseguirsi furioso di note, tale è la loro ricerca dell'estremismo musicale). Viva e sentita la prestazione vocale di Robert che alterna con cambi repentini linee vocali aggressive ed altre pulite e più emotive nel chorus, conferendo un tocco di dolce-amaro alla canzone. Conclusione con un outro atmosferica gustosa, seppur poteva essere sviluppata maggiormente. Invece con Elegy i Machine Head si divertono a imitare un doom sporco e ossessivo, inserito nella loro musica citando gli stilemi di particolari diramazioni anglosassoni del genere (reminescenze di gruppi come i Cathedral di pezzi come Ride in una versione di poco rallentata, i Danzig di parentesi come Belly of the Beast, i Candlemass più decisi ecc.). Il risultato suona come se avessero tentato di impastare qualcosa di non loro su di un impianto puramente nel loro stile per vedere cosa ne sarebbe uscito, una parentesi nata un po' per divertissement, un po' per dare uno sguardo al passato mostrando apprezzamento per certi gruppi tanto diversi da loro, in ogni caso ben eseguita ma che manca d'ambizione e si limita a congiungere sonorità preconfezionate senza tentare una reale ibridazione od un'acquisizione di nuove sonorità nelle proprie. Difatti questa "sperimentazione" viene riposta in un cassetto per In the Presence of My Enemies che ritorna sui binari consueti, arricchendoli però con articolazioni sonore sempre più corpose, bilanciando un'atmosfera adrenalinica con esplosioni taglienti e chorus melodici che fanno l'occhiolino a certi moderni gruppi catchy, mentre di contrasto l'assolo è un'esibizione di virtuosismo che riesce a colpire a fondo senza perdersi nell'eccesso e nella monotonia, ma anzi mostrando anche un certo gusto per le melodie (anche per gli arpeggi oscuri di sottofondo). Days Turn Blue to Gray, secondo singolo dell'album, dopo un'introduzione clean densa e soffusa in cui le chitarre elettriche riverberano di sottofondo, al contrario presenta un riff principale che si rifà a metà proprio al riff di Elegy, a metà al groove canonico, ripescando elementi sempre da dischi come The More Things Change. Qui il risultato suona più fluido e fatto proprio, accresciuto anche dall'ottima prestazione del gruppo che mescola violenza e melodia con scioltezza e freschezza (con momenti ancora più furiosi, come il finale schizzato, e anche più meditati, come il dolce intermezzo). Vim sviluppa ulteriormente la proposta della precedente canzone, concentrandosi però sul lato più selvaggio e furioso dei Machine Head, estremizzandone quanto già di violento era insito fra le loro note ed enfatizzando riff ora più allucinati, ora più death-oriented, ora più tendenti al groove tinto di metalcore. Uno dei pezzi più trascinanti del lotto. Con All Falls Down i Machine Head non si fermano ancora: forza, violenza, impatto, ma anche melodia riportata più al Sole nelle linee vocali catchy del ritornello e nei giochi di effetti sonori con le chitarre. Con "non si fermano ancora" intendiamo dire che sono in forma strepitosa, non accennano un minimo calo, anzi si potrebbe dire che dopo un inizio ancora in fase di rodaggio gli americani hanno preso totale confidenza con i propri mezzi sprigionando tutta la propria verve migliore per la seconda parte del disco. Wipe the Tears conferma ciò con la sua miscela di effetti sonori, distruzione auditiva, un Flynn brillante che alterna linee vocali quasi rappate, canto urlato rabbioso ed il ponte centrale più placido e mesto, trovando anche maggiori punti di contatto con il disco precedente.Piacevole variazione di toni con la conclusiva Descend the Shades of Night, un'unione di acustico e distorto che ripercorre ulteriori sentieri del passato del gruppo con un tocco moderno al tutto, una piacevole e triste ballata che sfocia ogni tanto in esplosioni di metal emozionale e vissuto.

Through the Ashes of Empires è un album in cui si continua ad avvertire la personalità dei Machine Head, finalizzata ad ottenere un impatto trascinantissimo, ma per contro risulta meno originale di diverse altre uscite e in esso si riduce l'ampiezza di vedute del complesso made in USA. Stilisticamente-innovativamente non è un disco che offre molto più di altri, ma dal punto di vista del songwriting spazza via con fierezza assoluta molte altre uscite del metal estremo di questi anni.
Fosse uscito al principio degli anni '90, sarebbe ora ricordato come una delle pietre miliari del genere thrash; dobbiamo accontentarci però di considerarlo semplicemente un ottimo album, con la condizionale che sarebbe stato maggiormente valorizzato uscendo prima nella discografia dei Machine Head e il rammarico che con esso si interrompe l'evoluzione musicale degli americani. Rimane in ogni caso una delle più pure espressioni di come sia il thrash metal degli Stati Uniti nell'epoca post-anni '90. Un parto devastante e micidiale, potentissimo e violento ma intriso di melodia, a modo suo "epico" ma anche oscuro.
Il seguito di questo lavoro è The Blackening, uscito nel 2007, che espande i tecnicismi e il lato più virtuoso del gruppo (al punto da dilatare la lunghezza delle canzoni a discapito dell'immediatezza), senza rinunciare ad una violenza connaturata fin nel profondo all'anima del gruppo, violenza che diventa anzi ancora più enfatizzata.

NUOVE USCITE
Filastine & Nova
Post World Industries
Montauk
Labellascheggia
Paolo Spaccamonti & Ramon Moro
Dunque - Superbudda
Brucianuvole
Autoprod.
Crampo Eighteen
Autoprod..
BeWider
Autoprod..
Disemballerina
Minotauro
Accesso utente