Voto: 
4.5 / 10
Autore: 
Paola Andriulo
Genere: 
Etichetta: 
Ferret Music/Andromeda
Anno: 
2008
Line-Up: 

- Matt Geise - voce
- Stefan Toler - basso
- Eddy Marshburn - chitarra
- Ricardo Escoto - chitarra
- Valentino Arteaga - batteria


Tracklist: 

1. To Satellite
2. The Ocean The Beast
3. Miami Nights
4. The Choreographer
5. Versus Versace
6. Pueblo Cicada
7. His Silent Film
8. The Ventriloquist
9. If We Speak Quietly
10. The Weatherman
11. Namaska

Lower Definition

The Greatest Of All Lost Arts

La Ferret Records con questo album ci ha regalato un tipico prodotto commerciale dei nostri tempi, che vende ma sarà probabilmente destinato ad essere messo nel dimenticatoio.
I Lower Definition da San Diego, dopo un EP autoprodotto, han tentato coraggiosamente di attirare con The Greatest Of All Lost Arts un pubblico quanto più eterogeneo possibile, amanti del Metalcore e dell’Emo soprattutto.
Una buona produzione e una buona tecnica dei cinque musicisti che non sono però accompagnate da un altrettanto buon prodotto finale; l’album, nonostante le buone intenzioni di attirare un vasto pubblico, non riesce a convincere nè il pubblico Emo nè tantomeno quello Metalcore.

Fin dai primi brani si coglie la debolezza di questo secondo lavoro dei Lower Definition: tanto in The Satellite quanto in The Ocean, The Beast! si sentono varie influenze musicali (come ad esempio i Mars Volta) ma non si riesce a percepire nulla di originale o che possa restare in mente ed esser canticchiato. Parti melodiche si alternano a parti Screamo e tipicamente Metalcore, e in questa alternanza la voce si adegua facilmente; probabilmente però il neo di queste varazioni nella voce e nel sound sta nel fatto che è come se fosse tutto artificioso e forzato, gli stacchi tra una parte e l’altra sono prevedibili. Miami Nighs, la terza traccia, nasce dolce e malinconica: non era assolutamente necessaria la parte Screamo nel bel mezzo del pezzo, perchè quest’ultima non crea nulla che muti il pezzo stesso, sembra quasi messa lì per sbaglio.
Purtroppo questa impressione iniziale di artificiosità, di mix a tutti i costi, di parti attaccate l’una all’altra ma non ad incastro perfetto, prosegue andando avanti coi brani successivi: anche dopo 5/6 ascolti dell’album è difficile ricordare un pezzo in particolare, è dura anche essere colpiti dalla voce, a tratti tipicamente Emo, che non riesce ad emozionare, restando uguale a se stessa, e adeguandosi senza troppa personalità ai vari cambiamenti. Pueblo Cicada, If We Speak Quietly, Namaskar, solo per citare altri tre brani dell’album, sono l’esempio di una buona tecnica che però non riesce ad esplodere in qualcosa che colpisca l’attenzione per originalità rispetto ai pezzi precedenti: sembra quasi di ascoltare un’unica traccia, ed è un peccato per un gruppo che, proprio perchè tenta di piacere ad un vasto pubblico, potrebbe far leva sulla sua bravura tecnica per incastrare tante influenze musicali ma in maniera forse più varia e creativa, meno macchinosa, meno piatta.

The Greatest Of All Lost Arts è come detto precedentemente un tipico prodotto commerciale, che può esser trascinato nelle mode ma che non può forse sperare di diventar moda o lasciare il segno. Non basta una buona tecnica per essere grandi musicisti, e non basta neppure creare un crogiolo di generi musicali per attrarre il pubblico.

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