Voto: 
4.5 / 10
Autore: 
Emanuele Pavia
Genere: 
Etichetta: 
Emi Records
Anno: 
2010
Line-Up: 

- Bruce Dickinson: Voce
- Steve Harris: Basso, Tastiere
- Janick Gers: Chitarra
- Adrian Smith: Chitarra
- Dave Murray: Chitarra
- Nicko McBrain: Batteria

Tracklist: 


1. Satellite 15... The Final Frontier
2. El Dorado
3. Mother of Mercy
4. Coming Home
5. The Alchemist
6. Isle of Avalon
7. Starblind
8. The Talisman
9. The Man Who Would Be King
10. When the Wild Wind Blow

Iron Maiden

The Final Frontier

È con The Final Frontier che gli Iron Maiden, probabilmente la band-emblema della musica heavy metal e tra quelle di  maggior successo di sempre in questo genere, danno alla luce il loro quindicesimo capitolo discografico, a quattro anni dall'ultimo controverso A Matter of Life and Death, seguito successivamente da ben due uscite live e una compilation del primo periodo di vita della band - la cui effettiva necessità è decisamente opinabile.
 
La line-up non ha subito alcun cambiamento: gli Iron Maiden rimangono il sestetto dal Brave New World  di 10 anni fa, con il solito Bruce Dickinson alla voce, Janick Gers, Dave Murray e Adrian Smith alle chitarre, Steve Harris al basso e Nicko McBrain alla batteria. Anche la proposta non è del tutto diversa da ciò cui gli album post-reunion ci hanno abituati: i pezzi sono caratterizzati da prolisse introduzioni e da conclusioni che riprendono il tema principale (almeno per quanto riguarda metà del lavoro), mentre il corpo è caratterizzato dai soliti acuti di Dickinson (che a distanza di quasi 30 anni dalla sua entrata in scena non propone nulla di nuovo, e anzi si mostra poco ispirato nelle sue parti vocali), da riff e assoli più o meno ripetitivi che non tagliano minimamente i ponti con il passato più recente della band, sostenuti dall'ormai caratteristico basso di Harris e dalla base ritmica di McBrain. È anche da sottolineare la lunghezza dei brani, elevata se non addirittura esagerata (il pezzo più breve è di 4 minuti e mezzo, mentre il più lungo arriva a vette di quasi 11 minuti), a causa della recente svolta pseudo-progressive nel song-writing di Steve Harris - unico membro della band che ha voce nella composizione di ogni canzone del platter -. Questa breve introduzione allo stile di tutto l'album mette subito in chiaro che chi s'è ritrovato a non apprezzare i dischi immediatamente precedenti a questo, difficilmente troverà di proprio gradimento quest'ultimo lavoro, ma anche coloro che hanno ascoltato piacevolmente Dance of Death o A Matter of Life and Death probabilmente si ritroveranno a chiedersi se ormai non è il momento per la band di concludere la propria avventura musicale, che seppur ormai leggendaria è nel pieno di una parabola discendente.
 
Satellite 15... The Final Frontier non contraddice questa premessa: l'introduzione è lasciata a riff di chitarra quasi psichedelici, conditi dai pattern di batteria di McBrain, che seppur possa risultare come un'idea gradevole nei primi momenti d'ascolto, alla fine si dimostra solo come fastidiosa, contando la lunghezza di tale intro (oltre due minuti, decisamente ridimensionabili o addirittura evitabili); subito dopo la sua conclusione Dickinson si mette in mostra con i suoi caratteristici ed esagerati vocalizzi (mostrando appieno la sua poca ispirazione, risultando davvero poco espressivo), sostenuti da riff scialbi e insapori e conditi da un drumming banale e da assoli alternati che non lasciano il segno.
La situazione non sembra migliorare neppure con l'arrivo della seconda traccia, El Dorado, primo singolo estratto da The Final Frontier, che risulta comunque piatta e in cui Dickinson non fa che confermare l'impressione data con la title track, risultando quasi fastidioso sia nelle tonalità più acute che in quelle più gravi; con la più breve Mother of Mercy c'è però un leggero miglioramento, e Dickinson riesce finalmente a mostrarsi non solo come un vocalist capace di meri acuti inespressivi - anche se sfortunatamente la situazione si rivela solo temporanea, e dopo la melodica introduzione si ritrova a cantare come nei brani precedenti -, mentre i tre chitarristi si cimentano in riff più interessanti; questi piccoli pregi non rendono però Mother of Mercy un brano bello a tutti gli effetti.
Segue quindi la ballata Coming Home, caratterizzata da buone idee (come alcuni riff e l'assolo che seppur non eclatante riesce a catturare l'ascoltatore) e da alcune delle linee vocali più pregevoli del platter. Non si tratta sicuramente di un capolavoro, seppur rinforzi molto la speranza che i primi tre capitoli del disco siano gli unici di tale mediocre qualità, così come non lo è The Alchemist, la traccia più breve di The Final Frontier, che ripescando dalla tradizione dei primi Maiden si rivela comunque come un pezzo decisamente energico e accattivante.
È da Isle of Avalon che il disco mostra appieno le influenze del nuovo gusto compositivo di Harris: la lunghezza dei pezzi aumenta considerevolmente, a discapito delle idee - nella fattispecie, una lunga quanto noiosa intro di charleston, basso e chitarra prelude al brano vero e proprio, mentre Dickinson si ritrova di nuovo a cimentarsi con le linee vocali che hanno reso i brani ad apertura del disco mediocri e noiosi -, con un corpo centrale dominato da continui assoli e variazioni del tema principale, che lasciano di tanto in tanto spazio alla voce.
Starblind non sembra voler contraddire tutte le considerazioni valide per Isle of Avalon, e si rivela noiosa in egual misura, nonostante l'aggiunta di tastiere al tessuto del pezzo per aggiungere varietà agli arrangiamenti. Un arpeggio acustico e la voce sussurrata di Dickinson aprono la successiva The Talisman, e seppur l'idea iniziale sia buona anche qua il giudizio viene nettamente ridimensionato per via della prolissità; successivamente l'arpeggio lascia il posto a una cavalcata di basso in cooperativa con la batteria di McBrain (che si toglie finalmente l'anonimato musicale che aveva mantenuto per la durata di quasi tutto il disco finora), su cui ancora una volta un esageratamente spinto Dickinson svetta con la sua voce. Nota di merito finalmente per la sezione solista, che dà alla luce riff e assoli tra i migliori dell'album, e che mostra come possano essere sfruttate in modo convincente tre chitarre soliste.
È con l'ennesimo arpeggio di chitarra in clean che si apre The Man Who Would Be King, prima di lasciare posto a dei riff di chitarra  distorta sostenuti da McBrain e nuovamente dalle tastiere. È ormai inutile sottolineare le pessime scelte che Dickinson attua per pressoché tutta la durata del pezzo, e risultano forzate anche le numerose variazioni del brano, quasi Harris volesse a tutti i costi comporre brani complessi e articolati a prescindere dalla sua ispirazione o dalla necessità di tali svolte.
La conclusiva Where the Wild Wind Blows si apre nuovamente con un arpeggio (preceduto questa volta dal rumore del vento per aggiungere atmosfera al tutto), e anche l'entrata in scena della voce sembra ricalcare pedissequamente The Man Who Would Be King, seppur l'evoluzione del pezzo risulti decisamente più affascinante... almeno per quanto riguarda la prima parte: è infatti poco dopo aver superato la metà che il brano comincia a perdere tutto il suo carattere, risultando eccessivamente lungo e forzatamente portato avanti, rovinando le buone idee che si erano notate nei primi cinque minuti, per poi chiudersi banalmente con l'arpeggio iniziale.
 
Difficilmente qualcuno non si sarà aspettato una delusione da questo ultimo lavoro, contando la mancanza di idee e il progressivo peggioramento da ormai un decennio a questa parte di una formazione che seppur storica non è più capace di mantenere un livello qualitativo abbastanza alto da giustificare tutto l'hype intorno a ogni loro recente uscita.
Questo disco è deludente sotto ogni punto di vista, le poche idee veramente buone vengono screditate dall'ultima svolta pseudo-progressive che costringe a una dilatazione eccessiva dei pezzi, e anche ciò che più ha reso caratteristico la musica dei Maiden (come gli squilli vocali di Dickinson o le cavalcate di basso di Harris) sono in questa release semplicemente sottotono, monocordi o semplicemente abusate da risultare come semplici cliché e deja vù. Consigliato solo ai collezionisti fan della band.

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