Voto: 
9.4 / 10
Autore: 
Gioele Nasi
Genere: 
Etichetta: 
Emi Records
Anno: 
1980
Line-Up: 

:
- Steve Harris - Basso
- Dave Murray - Chitarra ritmica e solista
- Dennis Stratton - Chitarra ritmica e solista
- Clive Burr - Batteria
- Paul di’Anno - Voce

Tracklist: 

1. Prowler
2. Sanctuary
3. Remember Tomorrow
4. Running Free
5. Phantom of the Opera
6. Transylvania
7. Strange World
8. Charlotte the Harlot
9. Iron Maiden

Iron Maiden

Iron Maiden

Il 1980 fu un annata storica e straordinariamente prolifica per tutto il movimento Hard'n'Heavy: tanti furono i lavori importanti che segnarono quell’anno, dal best-seller "Back in Black" (AC/DC) agli stradaioli "Wheels of Steel" (Saxon) e "British Steel" (Judas Priest), dalla rinascita dei Black Sabbath con Ronnie James Dio ("Heaven and Hell") al debutto solista di Ozzy Osbourne ("Blizzard of Ozz"), per arrivare alla pura adrenalina di "Ace of Spades", il disco-simbolo dei Motorhead; fra tutti questi 'pezzi da novanta', però, spiccava il nome giovanissimo di un act al debutto, ma che già da tempo faceva scalpore nell'underground metallico londinese, e ch'era destinato a diventare, di lì a pochi anni, una forza capace di imporsi come leader del panorama Heavy Metal.
Quel nome, ancora semplice monicker e non ancora sinonimo di leggenda, era Iron Maiden.

Il gruppo proveniva da una gestazione lunga un lustro, durante la quale il bassista e fondatore Steve Harris, pur affrontando un’estenuante serie di sconvolgimenti a livello di formazione (il numero di musicisti che si alternarono nella band in quegli anni è spropositato), era riuscito a dare una forte personalità al proprio gruppo, rendendolo pronto ad emergere dal fitto sottobosco della NWOBHM dell'epoca, per ergersi a guida di quel movimento: il demo “The SoundHouse Tapes” (1978) li rese conosciutissimi nel 'giro' Heavy di Londra, e mostrava una line-up che pareva, finalmente, durevole - oltre a Harris, gli Iron Maiden erano composti da Paul di’Anno alla voce, Dave Murray alla chitarra e Doug Sampson alla batteria.
Quella registrazione, sold-out in brevissimo tempo (ed ora oggetto di culto) permise un'ulteriore intensificazione del numero di concerti (e di nuovi fans), portando la band a girare per tutta l'Inghilterra: per dei ragazzi che durante la settimana avevano un lavoro (tutti provenivano dall'area meno agiata della capitale, l'East End), tutto ciò era davvero estenuanei: il drummer Doug Sampson lascerà ad inizio 1980 (lo sostituisce Clive Burr). A quel punto però, il grosso del lavoro era già stato fatto: poco prima il manager Rod Smallwood era riuscito a convincere la EMI Records del potenziale del gruppo, ottenendo così un prezioso contratto discografico, inaugurando un legame che dura ancora oggi. Di lì a poco, si inizia a fare sul serio: viene ingaggiato un secondo chitarrista, Dennis Stratton (il gruppo è ora nella sua formazione più classica, a cinque elementi) e si entra negli studi per registrare il proprio disco di debutto.

Nel Febbraio del 1980 esce il primo singolo, "Running Free", il cui discreto successo permette ai Maiden di suonare a Top of the Pops: il gruppo volle e ottenne la possibilità di suonare rigorosamente live (cosa che non accadeva dal ’72 in quel programma), mostrando una dose di personalità e coerenza certamente non posseduta da tutte le bands al debutto.
In Aprile, finalmente, esce l’atteso full-lenght: l’omonimo "Iron Maiden", che incredibilmente si classificherà addirittura alla 4° posizione delle charts britanniche, un risultato che ha del clamoroso e dimostra l’impatto della band nello scenario Hard’n’Heavy del tempo.

L'esordio degli 'Irons', rispetto al loro futuro sound, si dimostra decisamente più grezzo e rude, e contrae pesanti debiti con l'eredità del Punk, sia per quanto riguarda il songwriting (che privilegia l'immediatezza e la ruvidezza) che nell’interpretazione vocale del singer Paul di’Anno, dai toni ruvidi e vibranti e dalla personalità strafottente: è lui a segnare in modo profondo i primi dischi dei Maiden, con un approccio ben diverso da quello del suo successore Bruce Dickinson, che porterà in dote al gruppo un songwriting colto ed epico, oltre ad un timbro vocale acuto e squillante.
I punti cardine degli Iron Maiden, ad ogni modo, sono già chiarissimi: innanzi tutto la coppia di chitarre gemelle, utilizzate per ritmiche veloci e trascinanti e per assoli virtuosi ed efficaci; ed in secondo luogo un eccellente e carismatico lavoro del basso, strumento spesso di limitata importanza in ambito Metal, ma che negli Iron Maiden ha sempre avuto un ruolo da protagnoista, grazie alle sue scorribande su strade parallele a quelle delle chitarre: pur non poducendosi in assoli funambolici, Steve Harris riesce a dimostrare la sua importanza donando grande profondità e corpo alle canzoni, coprendo le spalle alla coppia Stratton-Murray e permettendo loro di sviluppare temi melodici di gran pregio.
Buona la provadi Clive Burr, che lavora egregiamente dietro le pelli: meno tecnico del successore Nicko McBrain, il suo apporto in velocità e sostanza è comunque fondamentale (e, soprattutto, il suo affiatamento con Harris è ottimo); l'unico possibile punto dolente è la produzione del cd (affidata ad un mediocre Will Malone), poichè poco chiara e definita e piuttosto sporca: Steve Harris stesso si è sempre detto dispiaciuto della qualità della registrazione, ma il risultato non è da buttare: la resa sonora non è brillantissima, ma si adatta straordinariamente bene all'atmosfera 'raw' di questo debutto, in cui la band è ancora legata alla rabbia delle periferie londinesi, e ai sobri arrangiamenti del Punk.

L’adrenalinica "Prowler" e la semplice "Sanctuary" (quest'ultima originariamente esclusa dalla versione inglese del CD) poste in apertura, sono la perfetta incarnazione delle qualità del gruppo: tecnica strumentale sopra la media al servizio di canzoni brevi ed eccitanti, pronte ad esplodere in chorus energetici o assoli esaltanti (Dave Murray, in particolare, è dotato di grande abilità), mentre la coppia ritmica, indiavolata (il basso di Harris è costantemente sugli scudi), gode di un groove devastante.
"Remember Tomorrow" cambia un po’ le carte in tavola, poiché mostra la versione più intimista dei Maiden: quello in terza posizione è un brano molto dolce, privo di ritornello e piuttosto duro nelle sezioni strumentali che separano le varie strofe, che invece sono sognanti e diluite; completamente opposta è invece la quarta "Running Free", un pezzo roccioso piuttosto banale ma divenuto negli anni un vero e proprio inno grazie al lineare sviluppo del suo refrain, studiato a tavolino per trascinare il popolo Metal durante i focosi live-shows del gruppo.

L'accoppiata di metà disco permette alla componente strumentale di prendere il sopravvento, e alle influenze Progressive di soppiantare quelle Punk: "Phantom of The Opera" e "Transylvania" sono brani relativamente complessi, lunghi e oscuri, costituiti da strutture meno rigide e da una maggiore libertà per i solisti: le chitarre offrono uno spettacolo di rara magnificenza, rincorrendosi in assoli da applausi a scena aperta, mentre basso e batteria riescono a non sfigurare mantenendo una compattezza esemplare, riuscendo a rendere coinvolgenti anche queste sezioni in cui l'apporto del vocalist è marginale ("Phantom of the Opera") o nullo ("Transylvania").
Prima della tempesta finale, "Iron Maiden" ha anche un momento di quiete, impersonato dalla ballata "Strange World", languida e liquida, durante la quale affiorano i toni più introspettivi di un Paul di'Anno sorprendentemente versatile; si torna alla carica con la penultima "Charlotte the Harlot": una delle rare incursioni di Murray a livello di songwriting (all'epoca sotto il controllo quasi esclusivo di Harris), è la canzone più punkeggiante e sbrigativa del lotto, non solo per le musiche veloci e sprizzanti aggressività (fa eccezioni il triste break atmosferico centrale), ma anche per i temi, che ci riportano con i piedi ben piantati su una strada di periferia dell’East End londinese dopo le sfuggenti trame oniriche di "Stange World".

La chiusura è affidata ad un vero classico, la canzone omonima (del disco omonimo): "Iron Maiden" è dotata di una struttura semplicissima (il testo, costituito da due strofe e un refrain, è ripetuto interamente per tre volte) ma devastante, ed era il brano con cui si chiudevano le incendiarie live performances del quintetto inglese, che “caricava” il pubblico grazie a questa vigorosa canzone e ad effetti scenici di grande effetto: faceva infatti capolino sul palco la figura di Eddie (la mascotte raffigurata in copertina, geniale intuizione che porterà l'immagine della band a essere una delle più riconoscibili di sempre), impersonata da vari membri della crew muniti di riflettori luminosi e fumogeni, suscitando il delirio dei fans presenti.

Nove tracce, nessun filler (cosa rara per un disco degli Iron Maiden), e soprattutto un sound che è già incredibimente personale ed elettrizzante, nonostante sia ancora distante dalla propria maturazione definitiva: "Iron Maiden" è un classico dell'Heavy Metal, uno dei dischi più convincenti del gruppo di Harris: come tale, non deve mancare nella bacheca di chi segue con piacere il panorama del Rock pesante.

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