Voto: 
6.8 / 10
Autore: 
Francesco Tognozzi
Genere: 
Etichetta: 
Matador
Anno: 
2010
Line-Up: 

- Paul Banks – lead vocals, guitar, lyrics
- Daniel Kessler – lead guitar
- Sam Fogarino – drums, percussion
- Carlos Dengler – bass, keyboards

Tracklist: 


1. Success
2. Memory Serves
3. Summer Well
4. Lights
5. Barricade
6. Always Malaise (The Man I Am)
7. Safe Without
8. Try It on
9. All of the Ways
10. The Undoing

Interpol

Interpol

In quello che pare sempre più l'anno dei ritorni eccellenti, tra gradite rinnovazioni e amarcord talvolta superflui, non poteva mancare la firma dei newyorchesi Interpol sul quarto lp, con alcuni mesi di ritardo sulla data inizialmente preconizzata per l'uscita. Ritardo per motivi fisiologici in quanto - come molti già sapranno - ad oggi il bassista e co-fondatore Carlos Dengler non fa più parte della band, avendo fatto le valigie ed essendo sceso dal carrozzone proprio mentre questi giungeva nei pressi dell'atteso rientro sulla scena internazionale (e dei dieci anni di attività in formazione storica), in seguito a scompensi e liti interne che negli ultimi tempi avevano quantomeno logorato i legami tra i membri e fatto appunto slittare la pubblicazione dell'attesissimo omonimo.

Quanto il basso di Carlos D. fosse pesante per la ponderata alchimia di gruppo non ci è ancora dato di saperlo, poiché il suo nome continua a figurare sui credits dell'album come se niente nel frattempo fosse accaduto; è però facile intuire, in tempo di revival post-punk, quanto l'apporto dello strumento cardine della sezione ritmica sia determinante nell'intelaiatura del sound. Affrontare in questa sede considerazioni del genere sarebbe comunque un bruciare le tappe; meglio concentrarsi sul disco che - come se non bastasse - segna un definitivo ritorno all'introspezione e alle cupe sonorità dell'esordio, cosa che non fa che aggravare la perdita sopratutto in prospettiva del tour mondiale che seguirà inevitabilmente l'uscita del disco (anche se il nome dell'ex-Slint David Pajo, ufficialmente annunciato come rimpiazzo in pianta stabile, è da pelle d'oca almeno sulla carta).
La scelta di tornare concettualmente agli albori rende comunque merito agli sforzi profusi dalla band negli ultimi anni, dopo che la clamorosa sbandata di Our Love to Admire aveva tristemente confuso i nostri con una melensa caricatura dei Killers, regalando loro in compenso - come spesso succede in questi frangenti - il biglietto per giungere dritti dritti nell'universo mainstream, solo appena sfiorato con il precedente Antics. Le parole del batterista Sam Fogarino, risalenti a quasi un anno fa, sono chiarificatrici in questo senso: "L’album precedente non è coinciso con un momento di grande coesione. Il nuovo, invece, è una specie di ritorno al periodo successivo al primo disco. Nell’ansia di andare avanti, non puoi lasciarti alle spalle il suono che ti caratterizza". Ed è proprio questo il punto: evolversi in una creatura informe pur di stare al passo, o procedere su una via larga e sicura, continuando a fare ciò che si sa fare bene, pur correndo il rischio di essere tacciati di immobilità? Stavolta gli Interpol hanno scelto la seconda carta, consci della propria capacità di saper fare una cosa sola, ma di saperla fare benissimo.

Così, da una necessità, o forse da un obbligo naturale di rivolgere lo sguardo indietro, da dove cioè si sono prese le mosse, nasce questo Interpol che restituisce il senso ad un collettivo smarritosi nelle pretese, senza tra l'altro rivestire la magra figura di una copia ingiallita di Turn on the Bright Lights. Il nuovo corso, o se si preferisce il corso ritrovato, torna a richiamare alla mente le sonorità di nomi eccelsi quali Cure e Chameleons, riprende coraggiosamente in mano i temi dell'abbandono, dell'alienazione, tragici clichè della stagione che visse delle confessioni di Ian Curtis e Adrian Borland: nomi conosciuti fin troppo bene da quel pallido dandy inglese che è Paul Banks.
Le unghie degli Interpol non graffiano più come un tempo ma qui non si tratta di mancanza d'ispirazione, o di velleità perdute per strada, ma semplicemente di un'intelligente ricerca di nuovi mezzi d'espressione. Gli strumenti ruggiscono ma le intenzioni bellicose rimangono quasi sempre defilate e non per questo inespresse: succede in Lights e allo stesso modo in Memory Serves (omaggio ai concittadini no-wavers Material di Bill Laswell?), come se, nella lunga messa al vaglio della formula più consona, il sound della band fosse approdato alla fine non troppo lontano dal punto di partenza, ma con un carico di esperienze accumulate nel tragitto che gli dona oggi un carattere riflessivo, pacato e fascinosamente atmosferico. Non c'è da stupirsi allora se a dieci anni tondi dall'incisione di schegge soniche come "Roland" e "Say Hello to the Angels" ci ritroviamo una Summer Well che non ha la pretesa di ferire come se le chitarre fossero lame arrugginite, ma preferisce piuttosto concentrarsi su un substrato sempreverde come il dub, riuscendo un'azzeccatissima diavoleria da terzo millennio; o se al posto dell'immediatezza espressiva quasi drakeiana di "Hands Away" - concesso che pezzi così si scrivono una volta sola nella vita - siamo posti davanti alla solennità di Always Malaise (The Man I Am), che si snoda tra passato (Sound, Chameleons) e presente (Arcade Fire, Grizzly Bear) come un fiume in piena di sensazioni, denso di pathos ed evocatività. La voce di Banks è tornata a possedere la personalità che conoscevamo e ci trascina, lucida e splendidamente malinconica, lungo i sentieri dell'iniziale Success, adagiata comodamente (per non dire ai limiti dell'abuso, ma va bene così) sugli allori di certa new-wave, tra i vuoti delle ritmiche sferzanti di Barricade - indubbiamente la miglior scelta tra le candidate al ruolo di apripista del long-playing - e sulle sponde cosmiche di Safe Without, che a conti fatti non riesce proprio un gran pezzo, nonostante disponga di un riff azzeccato e dell'attacco più promettente dell'intero lotto. Quindi echi di Hood nell'ottima Try It On e persino di Labradford nei bui meandri della post-atomica All of the Ways, prima di sciogliere i nodi con la disarmante sincerità di The Undoing, sublime congedo in bilico tra sogno ed incubo condito da un'escursione linguistica improbabile, che merita il suo effetto-sorpresa.

L'importanza di questo omonimo lp non è di rilievo assoluto e chi disponga di pazienza, curiosità e buone orecchie, non faticherà a trovare qualcosa di più stimolante per la sua voglia di musica anche tra le uscite dell'attuale 2010; tuttavia Interpol rappresenta un punto cruciale nella peculiare vicenda della band di NYC. A loro era richiesto di battere un colpo, dopo che la sorte li aveva eletti fieri portabandiera della falange postpunk-nostalgica del mondo indipendente per poi relegarli nel museo delle cere appena poco tempo dopo la ribalta internazionale: loro hanno risposto che sono vivi e stanno bene.
Il pregio che li distingue oggi da molti di coloro che erano idealmente partiti con loro, non è certo quello di avanzare una proposta originale e forse non lo sarà mai, ma è così perché il destino di pochi è quello di inventare; altri, pur mancando per natura di una propulsione innovatrice, riescono a guadagnarsi un posto al sicuro nei cuori di chi li ascolta grazie alla capacità di remiscelare, contaminare, reinventare e magari, cosa che fa estremamente piacere, reinventarsi, anche ad un paio di lustri di distanza dall'esordio.
In particolari circostanze basta assai meno di un capolavoro per ottenere vibrazioni positive, specie se si ama vivere di ricordi.

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