Voto: 
7.0 / 10
Autore: 
Damiano Cembali
Genere: 
Etichetta: 
RoadRunner Records
Anno: 
2009
Line-Up: 

:
- Jamey Jasta – vocals
- Frank Novinec – guitar
- Chris Beattie – bass guitar
- Wayne Lozinak – guitar
- Matt Byrne – drums

Tracklist: 

:
01. Become The Fuse
02. Not My Master
03. Between Hell And A Heartbeat
04. In Ashes They Shall Reap
05. Hands Of A Dying Man
06. Everyone Bleeds Now
07. No Halos For The Heartless
08. Through The Thorns
09. Every Lasting Scar
10. As Damaged As Me
11. Words Became Untruth
12. Undiminished
13. Merciless Tide
14. Pollution Of The Soul
15. Escape (New Diehard Edit)

Hatebreed

Hatebreed

“Questo è il nostro quinto studio album ed è mostruoso. Siamo sopravvissuti a situazioni davvero dure e la nostra musica lo dimostra. Non c’erano ragioni per cambiare la ricetta che i nostri fan già conoscono e amano ma abbiamo aggiunto alcuni ingredienti brutali e siamo più che soddisfatti del risultato. La violenza è un dono!”.

Così si era espresso il carismatico Jamey Jasta, leadr maximo degli hardcorers Hatebreed, anticipando l’uscita del loro quinto studio album, l’omonimo Hatebreed. Mai parole furono così fortemente esplicative: il successore del cover album For The Lions, piacevole quanto si voglia ma francamente inutile (come tutte le cover, a nostro parere), esprime appieno la fase creativa di piena transizione che sta attraversando il combo originario del Connecticut, contemporaneamente in preda ad attacchi di hardcore old style in perfetta linea con i loro primi successi, Perseverance e Rise Of Brutality, e pulsioni evoluzioniste che facciano seguito alle introduzioni groove metal dell’ultima raccolta di inediti che fu Supremacy, nel 2006. L’incerto risultato di queste forze quasi manichee e certamente di ben difficile conciliazione è un lavoro complessivamente altalenante e a tratti un po’ fiacco, proprio in virtù della palese crisi di identità artistica che sembra non aver trovato ancora il suo definitivo scioglimento. In realtà i toni apocalittici precedentemente utilizzati non sono certamente specchio dell’effettiva condizione in cui vertono gli Hatebreed: la verità è che il desiderio più che comprensibile di rinnovare la propria formula stilistica, espresso in maniera piuttosto significativa già dal titolo del nuovo disco (l’omonimia è sempre indicativa di una rinascita e/o di una trasformazione), appare spesso soffocato dal suo principale effetto collaterale, ovvero il rischio tangibile di irritare gravemente la propria fan base. Questa preoccupazione risulta ulteriormente fondata alla luce del tradizionale istinto di auto-conservazione degli hardcore fans, estremamente restii ad accettare tanto i più infimi ammodernamenti quanto le più rivoluzionarie innovazioni.

Conseguenza pressoché inevitabile è, appunto, l’altalenante tracklist di Hatebreed, frutto agrodolce di una fusione a tratti davvero esaltante, a tratti parecchi inconcludente: dopo il buon inizio firmato dalla rocciosa opener Become The Fuse, esattamente in bilico fra tendenze metalliche e refusi hardcore, l’album prende immediatamente una piega reazionaria con l’accoppiata costituita dalla massiccia Not My Master, discreta nonostante un riffing a tratti davvero fastidioso (in corrispondenza del drumming in levare, per chi volesse approfondire), e dall’oscura Between Hell And A Heartbeat (con tanto di accenni d’assolo), in assoluto uno dei migliori episodi del platter. La tripla successiva lascia invece piuttosto interdetti: In Ashes They Shall Reap, primo singolo estratto, si fa apprezzare per il groove marziale con assoluto obbligo di headbanging ma nel complesso risulta scarna o più semplicemente incompiuta; Hands Of A Dying Man si abbandona a ritmiche thrashy semplicemente odiose, salvandosi solo per il devastante crescendo finale e una durata relativamente esigua che ci traghetta finalmente a Everyone Bleeds Now, altra irriducibile reduce dei tempi che furono, grezzo e grintoso groove fra rallentamenti ansiogeni e accelerazioni tritacarne. La mutazione genetica con la quale avevamo introdotto questo nuovo Hatebreed si verifica a partire da No Halos For The Heartless, cavalcata furente clamorosamente guastata da coretti emo francamente puerili (si è sentito di peggio, è vero, ma qui ci troviamo in presenza degli Hatebreed, non certo di giovani sprovveduti), proseguendo poi con Through The Thorns e Every Lasting Scar, nella quale lo stesso Jamey Jasta si lascia improvvisamente andare a linee vocali finalmente musicali: soprattutto quest’ultima esprime alla perfezione la nuova dimensione stilistica nella quale si stanno proiettando gli Hatebreed, ossia una sorta di groove metal essenziale, violento, senza inutili orpelli tecnici (nonostante le partiture evidenzino una complessità finora inesplorata, a riprova della rinnovata vocazione metallica del combo della East Coast). Dopo questa parentesi piuttosto soddisfacente, la parte conclusiva dell’album riserva alti e bassi che gettano Hatebreed nella tranquillità  speranzosa propria di tutti quei lavori in parte reattivi, in parte acerbi, completamente immersi nel limbo del “vorrei ma non posso”: all’impalpabile As Damaged As Me fa seguito l’energica Words Become Untruth, altro brillante manifesto della via intermedia adottata dalla band originaria di New Haven in questo suo quinto lavoro, quindi gli oltre 4 minuti della strumentale Undiminished, in pieno territorio melodic death metal (con tanto di sussurrata chiusura in pianoforte), ci trascinano placidamente verso la ruggente Merciless Tide, ottimamente contraddistinta da ripidissimi assoli di chitarra, e l’agguerrita Pollution Of The Soul, contrassegnata da quel riffing estremamente curato che di Hatebreed è forse in assoluto la caratteristica più innovativa, evidente e piacevole. Infine, la conclusiva Escape ci ripropone un Jamey Jasta versione cantante che dà prova di buone capacità vocali anche in clean, offrendo quello spunto di imprevedibilità che solo in pare nasconde gli evidenti limiti del pezzo nel suo complesso, frutto di un heavy metal dal sound vintage ma emotivamente ben poco incisiva.

Alla fine dell’ascolto di un lavoro come Hatebreed capita che, rileggendo le entusiastiche dichiarazioni del singer Jamey Jasta, affiori sul viso il sorriso amaro di chi vi aveva scorto fra le righe ben più di un tradizionale e alquanto scontato lancio pubblicitario. Va detto che, stando ai contenuti espressi, le parole pronunciate esprimono perfettamente quanto fatto in Hatebreed: se da un lato è evidente come la formazione americana avvertisse la necessità di non potersi più ripetere, approfittando soltanto dell’inesauribile vena conservatrice dei propri innumerevoli fans, dall’altro, alla luce di quanto proposto in questo disco, risulta fin troppo chiaro che una simile volontà progressista si sia scontrata con la preoccupazione, più che comprensibile, di non eccedere, rischiando di provocare di conseguenza irritazione e scontento presso i propri supporters e tutti gli adepti della scena hardcore. E’ proprio questo inevitabile scontro fra volontà palesemente inconciliabili a danneggiare maggiormente Hatebreed: gli episodi più legati alle origini discografiche della band, infatti, risultano a volte sminuiti dal consistente pericolo di auto-imitazione, mentre i momenti più slanciati e futuribili si rivelano spesso eccessivamente frenati dallo spiacevole timore di perdere completamente contatto con le proprie floride radici. Alla fine quanto detto non può che confluire in un giudizio incerto, almeno quanto le intenzioni appena svelate della band: la qualità espressa dal platter in questione non è affatto insufficiente, Hatebreed paga dazio ad una genesi scarsamente focalizzata sui propri obiettivi ultimi, vittima della paura di “fare il passo più lungo della gamba”, ma, trascurando un paio di tracce francamente mal riuscite e qualche passaggio ampiamente rivedibile, ci troviamo di fronte ad un prodotto musicale di gran lunga superiore alla media attuale del genere di riferimento. Tuttavia è chiaro che, alla luce dei confortanti risultati del precursore Supremacy, che già introduceva alcuni brillanti inserimenti metal, era lecito aspettarsi molto di più, soprattutto da parte di una formazione esperta e coraggiosa come gli Hatebreed: speriamo, davvero, che sia soltanto per la prossima volta.        

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