Voto: 
8.0 / 10
Autore: 
A. Giulio Magliulo
Etichetta: 
Autoproduzione
Anno: 
2011
Line-Up: 

Guy Littell (Gaetano Di Sarno) - chitarra acustica, voce

Ferdinando Farro - chitarra elettrica, basso,synth, piano

Antonio Marino - batteria

Flora Faglia - violino

Tracklist: 

1. TIRED OF TELLIN'

2. WITHIN

3. THE NIGHTMARE CAME

4. NEEDED THAT CALL

5. KILL THE WINTER

6. BLACK WATER

7. SMALL AMERICAN TOWN

8. A GIFTED SUMMER

9. WHAT A WAR (FOR MY SOUL)

10. BEST THING EVER

Guy Littell

Later

Dopo l'e.p. The Low Light And The Kitchen del 2009 ritorna Guy Littell con questo primo album, Later, anch'esso rigorosamente autoprodotto in collaborazione con Ferdinando Farro (mente del progetto alt-blues Maybe I'm).

Later, bisogna precisarlo, nonostante le premesse necessariamente 'underground' in cui nasce e si sviluppa, non è figlio di una generica estetica lo-fi come si potrebbe facilmente immaginare: il concept del songwriting di stampo americano che Guy Littell trasmette è di ben ampio respiro.

Se nel precedente e.p. il nostro celebrava le sue influenze 'di base' con delicati bozzetti che attingevano ad un  cantautorato maturo ma contaminato da nobili screziature di pop britannico, ora  i riferimenti che si scorgono sono ancora più importanti sebbene nascosti nelle memorie collettive del rock. E sembra che non sia lui a cercarli ma che essi si presentino spontaneamente e miracolosamente visto il modo in cui egli li accoglie e li fa suoi, vista la apparente semplicità della sua scrittura e la fluidità delle composizioni.

La sua voce poi sceglie spesso l'unico tono in cui è possibile raccontare le cose dell'anima, quelle che escono graffiate e sabbiose dopo esser state trattenute a forza in gola; quello basso quindi,fatto di colori scuri anche se - rispetto al passato - ora sembra sapersi anche distendere verso la luce. Resta comunque a sorreggerla un'emotività fragile che si rispecchia anche nei testi, pensieri incompiuti, circolari, spesso solo parole che affiorano e alludono ad un mondo interiore che potrebbe essere stato, o che forse potrebbe ancora essere.

La bellezza che informa questo lavoro è tutta in questi stati d'animo.

L’iniziale Tired of Tellin' procede su un impianto voce/chitarra acustica che era già fondamenta dell'e.p. precedente e che si arricchisce man mano del prezioso supporto degli altri componenti dei Maybe I'm al piano e alla batteria; tutti gli strumenti suonati nell'album provengono da elementi di quella formazione che si è adeguata al songwriting di Guy Littell regalandogli preziosi arrangiamenti (per i quali non si finirà mai di ringraziare Ferdinando Farro) come quelli relativi alle volute di chitarra elettrica urbane e aspre che si avvicinano ad una sensibilità 'moderna' alla Kurt Vile.

Within suggerisce che sarebbe sbagliato pensare solo a Mark Lanegan ascoltando la voce di Guy Littell poichè nel solco profondo in cui affonda la passione del nostro, si diramano rivoli di storia musicale statunitense in cui è possibile incontrare l'intimismo dei Lambchop come l'Eddie Vedder solista più ‘incontaminato’. E’ uno dei punti più alti del disco, impensabile per un primo full-length, allo stesso modo della dolcemente ondivaga The Nightmare Came.

La quarta traccia, Needed That Call ci presenta un Guy Littell tutto in elettrico e questa è una novità che stravolge la struttura delle sue composizioni. Oltre ai Replacements di Paul Westerberg (spesso citato quando si scrive di Guy Littell) qui c'è tutta l'energia grezza, selvatica e insofferente dei Wipers ma al contempo anche l’urgenza pop degli Urge Overkill di Saturation di cui il brano sembra un outtrack: archetipo inconsapevole di inno ‘indie’, di college rock.

E proprio come in quel grande album degli anni novanta che a grandi apertura elettriche seguivano semi-ballads barocchissime, qui segue Kill The Winter, altri due minuti e mezzo in cui si dimostra come la linea di demarcazione tra ciò che potrebbe essere mainstream e ciò che non lo è, resti solo una questione per analisti di mercato.

In Black Water sì che c’è qualcosa di laneganiano, ma il passo sofferto è quello dei Sophia di Ben Sheperd. E’ un funerale in un giorno di sole e la cadenza dettata dalle percussioni non distoglie dal percorso di speranza indicato dalle code di elettrica.

Small American Town è la poesia della grande provincia; immagini sgranate in bianco e nero di teenagers seduti su scalini che pensano ad Alex Chilton e Big Star  mentre fuori impazza il punk; le loro canzoni in un universo parallelo avrebbero dovuto incendiare gli stadi mentre non è avvenuto niente di tutto questo; sarebbero stati titani rispetto al piattume indie degli attuali ‘giovani’ e questo Guy Littell lo sa e rende giustizia a tutta una generazione di beautiful losers. Epica!

E’ invece una stramba intro giocattolo di pop-psichedelico a introdurre A Gifted Summer e ci ricorda i  Beatles e Robyn Hitchcok. Le antiche passioni british del nostro affiorano e la voce sembra sul punto di spezzarsi. Ma non si spezza e in What a War For My Soul diventa ancora più potente ed  oscura come nei migliori Editors.

Best Thing Ever che rispetto a tutto l’album può sembrare più leggera, vuole in realtà proprio diffondere un senso di positività grazie al suo essere corale: qual miglior chiusa con dei violini  asciutti a mettere qui il punto?

Contemplare decadi diverse di rock nella musica di Guy Littell non è una forzatura, è una necessità. Come avvenga questo processo è un segreto che solo lui conosce, a noi è concesso solo di ascoltare le sue rivelazioni.

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