Voto: 
8.0 / 10
Autore: 
Gioele Nasi
Genere: 
Etichetta: 
Sublife/Andromeda
Anno: 
2006
Line-Up: 

- Stein Roger Sordal - Basso, E-bow, Caffè, Voce e Cori
- Tchort – Chitarra Acustica
- Kjetil Nordhus - Voce e Cori
- Tommy Jackson – Batteria, Percussioni
- Michael S Krumins - Chitarra acustica e semi hollow, Theremin
- Kenneth Silden, - Piano, rhodes, mellotron
- Bjørn Harstad - Chitarra slide, tremolo ed effetti

Guest musicians:
- Leif Wiese - Violino
- Gustav Ekeberg - Viola
- Bernt Andrè Moen – Violoncello


Tracklist: 

1. Sweet Leaf (4:38)
2. The Burden is mine....alone (3:15)
3. Maybe? (5:02)
4. Alone (3:43)
5. 9-29-045 (15.29)
- My Greater Cause
- Home Coming
- House of Cards
6. Childsplay Part III (3:32)
7. High Tide Waves (7:49)

Green Carnation

The Acoustic Verses

Formatisi all’inizio dei 90's a Kristiansand, in Norvegia, i Green Carnation rimasero per una decina d’anni nel profondo di un cassetto, mentre i due fratelli Botteri e Anders Kobro, all’epoca rispettivamente basso, chitarra e batteria del gruppo, scrivevano pagine importanti ed emozionanti del metal d’avanguardia con il loro altro progetto, i fenomenali In The Woods…; i Green Carnation furono poi resuscitati da questo stato d’ibernazione all’inizio del nuovo millennio dal chitarrista Tchort, che chi fra voi segue la scena Black Metal ricorderà come membro di Blood Red Throne e Carpathian Forest, oltre che (in veste di bassista) sul primo disco degli Emperor.
In questo nuovo corso della band, persi per strada i vari membri ex-In the Woods..., i Green Carnation hanno seguito un’evoluzione tutta propria, forti di una base di fans abbastanza variegata ed aperta a svariate sonorità: è forse anche questo il motivo che ha permesso alla band, nel 2006, di mutare nuovamente e temporaneamente faccia per creare un disco interamente acustico, questo “The Acoustic Verses” appunto.

Una dimostrazione di forza, maturità musicale ed indipendenza compositiva (come recita il testo di “High Tide Waves”: ‘not afraid to fall, i'm older now, i'm standing tall’), quella della band scandinava, aiutata da un vero e proprio stato di grazia a livello d’ispirazione: è il momento giusto per un lavoro del genere, un lavoro che, se non consacra la band sotto il punto di vista stilistico (visto che il registro musicale della band è in continua evoluzione), lo fa certamente sotto quello puramente qualitativo ed artistico; “The Acoustic Verses”, oltre ad essere uno dei dischi ‘caldi’ di questo prolifico 2006, alza di parecchio le quotazioni della band di Tchort e Kjetil Nordhus, mostrando ancora una volta che la loro ecletticità è accompagnata da un’attitudine produttiva e concreta.

“The Acoustic Verses”
è composto di sette segmenti, sette ballate acustiche ognuna con una propria personalità e chiave di lettura, sette canzoni capaci di mischiare Folk, Prog Rock, atmosfere jazzy e dilatate, ampie sezioni acustiche e situazioni più orchestrate: insomma, il gruppo non si è limitato a una scarna ‘semplificazione’ del sound, ma lo ha bensì ampliato in una nuova direzione, esplorandolo (relativamente) a fondo. Il disco può essere idealmente suddiviso in due parti, una prima metà più dinamica composta da pezzi brevi e vari (le prime quattro tracce), e una seconda più monumentale in cui i brani sono maggiormente complessi (troviamo infatti tre canzoni per più di venticinque minuti); l’apertura è affidata alla ritmata “Sweet Leaf”, nella cui parte introduttiva ci vengono fatte pregustare le orchestrazioni del trio d’archi ed il sapore settantiano delle tastiere di background: bassa e sicura, la voce di Kjetil Nordhus scandisce con regolarità marziale il testo della canzone, variando comunque stile durante il brano e lasciandosi andare a tonalità più alte e meno oppressive: “Sweet Leaf” è un po’ manieristica e suona poco spontanea, ma questo difetto viene prontamente eliminato già dalla seguente “The Burden is Mine... Alone”, disperata ed addolorata, la più breve tra le songs proposte, nonché la più malinconica, intima e spoglia: niente orchestrazioni particolari, solamente voce e chitarra acustica, per un brano che richiama il sound degli Antimatter del riuscitissimo “Planetary Confinements”.
" ... I feel the blood under my skin / and I hate every part of me / how could I lose the only thing worth keeping / now I'm sorry I didn't wait for you ... "


“Maybe?” è il passo successivo, statica nelle strofe ma affascinante e sognante durante il refrain e nella sezione atmosferica che inizia proprio a metà brano: eterea e spettrale, la pur buona “Maybe?” non è che un antipasto per quello che segue, ovvero la quarta “Alone”, che riprende la lezione che diedero gli Arcturus dieci anni fa in “La Masquerade Infernale” e mette in musica lo stesso poema di Edgar Allan Poe, mostrando gli arrangiamenti più ricercati ed efficaci di “The Acoustic Verses”, con un violino molto folk a costituire la chiave di volta del brano; Kietil non ha certo la teatralità del folle Garm, e propone un approccio fine e delicato, accordandosi al mood composto e soffice che viene proposto dagli archi e dalle corde delle chitarre.
Prendetevi un po’ di calma per seguire il brano successivo, “9-29-045”, una suite di 15 minuti composta da tre parti: la prima è “My Greater Cause”, riflessiva, solitaria e graziata da cori che riescono a provocare brividi di puro piacere grazie alle melodie tristi e malinconiche.
" ... all that I wanted was to slip away / for a little while / 'cause I felt alone / and I couldn't keep up with the world ... "

La seconda parte è un intermezzo strumentale, “Home Coming”, dalle tinte riposanti, psichedeliche e progressive: splendido ricamo, la cui pecca sta nel fatto di mancare di coesione in alcuni collegamenti strumentali, come quello che dovrebbe introdurre la terza parte “House of Cards”, la quale è in realtà un po’ scollegata da ciò che la precede nell’immediato, ma che è di una bellezza mozzafiato se presa di per sé: nel complesso, dunque, giudizio molto positivo per questo lungo esperimento in quinta posizione, specialmente se viene studiato nelle sue singole parti e non come un blocco unico da prendersi assieme. Una strumentale, “Childsplay Part III”, costituisce il proseguimento dei due episodi precedenti di “Childsplay”, posti nella seconda metà del disco precedente “The Quiet Offspring”: il richiamo a livello di atmosfere agli Opeth di “Damnation” è forte, ma i Green Carnation sviluppano maggiormente le parti di pianoforte ed accolgono anche sfumature neo-classiche alla loro musica: “Childsplay Part III” è un passaggio eccellente prima della conclusiva “High Tide Waves”, che alterna momenti in cui il gruppo si muove in punta di piedi, ad altri ben più corposi e ‘pesanti’, con atmosfere che sfiorano il cupo e il gotico, ma riuscendo con svariati colpi di coda a non finirci dentro, ed anzi a riportare l’ambientazione su lidi più caldi e soffusi, quale ad esempio lo splendido assolo al sesto minuto, con spunti fusion a sorprendere l’ascoltatore.

Senza dubbio questa nuova pubblicazione conferma le capacità del quintetto nord-europeo (anche al di fuori del proprio ambito 'naturale') e riesce a convincere grazie ad una perfezione stilistica che è supportata spesso, anche se non sempre, da melodie emozionanti che colpiscono nel segno. In “The Acoustic Verses” luccica più o meno tutto, pur non essendo sempre oro puro quello che esce dagli altoparlanti, a livello di passione e sentimento: se questo difetto può essere indigesto a chi chiedeva al gruppo di ‘superare’ gli In the Woods, esso rimane un particolare marginale su cui saprà soprassedere chi ama la band di Tchort, chi approva queste ‘variazioni sul tema’ acustiche da parte delle Rock-Metal bands, chi ha apprezzato i nuovi Anathema, gli ultimi Antimatter oppure gli Opeth dell’ameno “Damnation”, nonché i gruppi di Rock anni ’70 che hanno influenzato queste bands: c’è più carne al fuoco di quanto sembri, in “The Acoustic Verses”, ed è cotta a puntino.


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