Voto: 
7.2 / 10
Autore: 
Francesco Tognozzi
Genere: 
Etichetta: 
Parlophone
Anno: 
2010
Line-Up: 

- 2D - lead vocals, keyboard
- Murdoc Niccals - bass
- Noodle - guitar
- Russel Hobbs - drums, percussions

Tracklist: 

1. Orchestral Intro (feat. Sinfonia ViVA)
2. Welcome To The World Of The Plastic Beach (feat. Snoop Dogg and Hypnotic Brass Ensemble)
3. White Flag (feat. Kano, Bashy and The National Orchestra For Arabic Music)
4. Rhinestone Eyes
5. Stylo (feat. Bobby Womack and Mos Def)
6. Superfast Jellyfish (feat. Gruff Rhys and De La Soul)
7. Empire Ants (feat. Little Dragon)
8. Glitter Freeze (feat. Mark E.Smith)
9. Some Kind Of Nature (feat. Lou Reed)
10. On Melancholy Hill
11. Broken
12. Sweepstakes (feat. Mos Def & Hypnotic Brass Ensemble)
13. Plastic Beach (feat. Mick Jones & Paul Simonon)
14. To Binge (feat. Little Dragon)
15. Cloud Of Unknowing (feat. Bobby Womack and Sinfonia ViVA)
16. Pirate Jet

Gorillaz

Plastic Beach

Gorillaz are back. Lo aveva promesso già nel lontano settembre del 2008 il guru Damon Albarn, per poi annunciare successivamente il parto ormai prossimo del suo 'disco più pop di sempre' - e fa impressione sentirlo dire a uno che di pop ne ha macinato per il lungo corso di un ventennio, prima da leader dei Blur, poi di questo folle progetto multimediale e quindi del fantagruppo The Good, The Bad and The Queen, senza farsi mancare nel frattempo svariate collaborazioni e più o meno riuscite escursioni soliste. Così, tra schiere di fan trepidanti, il misterioso ensemble uscito dalla matita di Jamie Hewlett è finalmente tornato in studio dopo cinque anni di silenzio, ritirandosi in una sorta di isolamento monastico nella nuova, fantomatica residenza di Plastic Beach, isola sperduta nel Sud Pacifico, 'luogo formato da detriti, rottami e scarti dell'umanità', così come recita un comunicato sul sito ufficiale della band.
Con due lavori acclamati più dal pubblico che dalla critica e 12 milioni di dischi venduti alle spalle, la prima band virtuale nella storia della musica si è data da fare per allargare il proprio bottino e anche stavolta si è garantita un fastoso carnet di collaborazioni: il cast vanta i nomi di Lou Reed, Mark E.Smith, (mai) vecchi mattacchioni come Mick Jones e Paul Simonon e mostri sacri dell'universo hip hop - elemento immancabile nel Gorillaz-sound - del rango di Snoop Dogg, Mos Def e De La Soul. Il risultato è un album sofisticato e multiforme che, un po' a sorpresa, sembra piuttosto allontanarsi a grandi passi dai compiacenti territori del pop da classifica, a dispetto delle ormai datate dichiarazioni di Albarn, per sancire un variopinto melting pot di elettronica ottantiana, pop orchestrale, hip hop, dance emaciata, world music e momenti non sospetti di puro cantautorato introspettivo.

La maturità acquisita oggi dal gruppo che sembrava nato per fare felici i ragazzini, si avverte sin dall'Orchestral Intro del disco, che si addentra in territori dubstep e ambient-techno senza prendersi troppo sul serio e mostra senza esitazione la nuova tempra dei pupazzetti più in voga della pop music. Una volta rotto il ghiaccio, per i Gorillaz incantare e stupire non rappresenta più un problema: si passa in poche battute dalla sintesi malata di elettronica ottantiana e hip-hop di Welcome to the World of Plastic Beach, intonata da '2D' qui in una veste meravigliosamente istrionica e disillusa, alla lunga ballad White Flag (inno pacifista? - Albarn ormai lo conosciamo bene), dal sapore di terre esotiche e lontane, supportata dalla maestrìa della National Orchestra For Arabic Music e vicina, per questo ed altri motivi, alle atmosfere di Think Tank, l'album politico dei Blur; quindi si torna di nuovo a molleggiare sullo pseudofunky di Rhinestone Eyes, che con il suo avanzare gommoso e gli interludi da coro delle voci bianche, ci garantisce un amarcord dalle parti dell'omonimo esordio della visual band. Discorso a parte per Stylo, che non sorprende tanto per quel che è, quanto per ciò che avrebbe potuto essere; il singolo naturale del disco, costruito ad hoc per accontentare i fan di bocca buona, finisce per costituire uno dei momenti meno edificanti in assoluto, mostrando il volto slavato del featuring ad ogni costo: le iniezioni di rap (Mos Def) e soprattutto quelle di soul (Bobby Womack) risultano a dir poco fastidiose in un contesto synth-pop accattivante che rispolvera John Foxx e Gary Numan con una certa padronanza, e che meriterebbe forse miglior gloria. Ma niente panico; se lo stacchetto giocoso e solare di Superfast Jellyfish non può bastare a risollevare 2D e soci dall'ingenerosa caduta di st(y)le, a far quadrare i conti ci pensa Empire Ants, barcollante connubio di dub e reggae-funk che vanta l'intro più riuscita dell'intero lotto: polvere di stelle da un viaggio nel cosmo che sembra uscito dalle pagine di Douglas Adams, quindi giro di basso minaccioso e corroborante, come a dire che si scherza per non voler sfoggiare gli artigli, e poi via in un nuovo, spassoso siparietto irrimediabilmente naïf. La collaborazione di Mark E.Smith è poco più che una comparsata in Glitter Freeze, che vede un Damon Albarn malamente camuffato da proprio alter-ego cimentarsi nelle vesti di profondo e introverso songwriter, mentre un synth delinea contorni sognanti e lo storico leader dei Fall tenta un improbabile monologo da ubriacone con il suo inconfondibile accento mancuniano. Seguono episodi meno riusciti, come l'eclettica Some Kind of Nature, che non rende merito al rango dell'ospite d'onore Lou Reed, la marcetta vaporosa di On Melancholy Hill e il divertissement di Sweepstakes, che paiono poco più che semplici riempitivi. Broken è, d'altro canto, il vero capolavoro di questo colorato collage di escursioni sonore: liberi per un attimo dai numerosi invitati alla loro festa, i Gorillaz si lanciano in un conturbante vortice di pulsazioni alla ricerca del crocevia perfetto tra eighties e trip-hop, con risultati stupefacenti. E se To Binge non è che un prolisso, mastodontico remix della fortunata 'Dare', cavallo di battaglia dell'episodio precedente Demon Days, Plastic Beach con due quarti dei Clash dietro le quinte riesce a convincere, segnando il passaggio più aggressivo dell'album con i suoi chitarroni pompati e distorti, memori dei fasti di quei surfisti assassini che erano i Chrome. Gli anni '80 ritornano prepotentemente protagonisti nel finale, con le nebbie sintetiche di Cloud of Unknowing, che sembra un'impietosa parodia degli Associates; mentre la chiosa è affidata a Pirate Jet, che regala l'ultima scossa lambendo timidamente le rive dell'industrial music con inserti di typewriter e rumori del traffico metropolitano che aggiornano Autobahn al ventunesimo secolo - e su quest'ultima nota perdoniamo i Gorillaz per non essere i Kraftwerk, perchè nel loro 'piccolo' (che non è certo un piccolo sul piano commerciale) stavolta 2D, Murdoc Niccals e tutti gli altri hanno fatto centro, indovinando un'amalgama di episodi variegata ed invitante che supera di fatto i due predecessori, e non solo per intraprendenza.

Plastic Beach è lo specchio ideale di tutto ciò che Albarn ha inglobato e assimilato in venti anni di onorata carriera, trasposto nell'arcana dimensione in cartoon-3D al fianco dei suoi nuovi inseparabili partner artistici; dalle recenti esplorazioni dei suoni nascosti dell'Africa Nera e del Medio Oriente all'indomita passione per l'elettronica di marca anni '80 e del mood che da sempre ne ha delineato i contorni, vecchio pallino del nostro pop hero d'Albione. E' un lavoro ricercato, attento ai dettagli e alle sfumature, e non molto radiofonico nel suo complesso, eccezion fatta per il piglio decisamente catchy del primo singolo estratto e per forse altri due o tre episodi al massimo. Un'uscita che mostra gli alfieri della visual music in una posa più intimista e riflessiva rispetto al passato, a tratti malinconica, perchè anche i pupazzi hanno un cuore, un'anima e una morale da riversare in note quando gli abiti da star dei fumetti cominciano ad andare corti.

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