Voto: 
7.0 / 10
Autore: 
Gabriele Bartolini
Etichetta: 
Drag City
Anno: 
2011
Line-Up: 

-Ty Segall - Compositore musiche, testi

Tracklist: 

1. Goodbye Bread
2. California Commercial
3. Comfortable Home (A True Story)
4. You Make The Sun Fry
5. I Can’t Feel It
6. My Head Explodes
7. The Floor
8. Where Your Head Goes
9. I Am With You
10. Fine

Ty Segall

Goodbye Bread

"Cause who plays the game we all play? / Won't you play me today? / And who sings the song when we're gone? / Won't you sing along?"

Prima o poi un disco così, ne sono sicuro, lo avrebbe inciso anche Jay Reatard, facendosi catturare, almeno per una volta, da tutti questi fragranti odori che il pop underground sta esponendo al bancone da qualche anno a questa parte. Ma forse no, Jay era figlio della nuova ondata garage-punk, di quei gruppi con il sangue negli occhi che solevano evidenziare con ironia il grunge fasullo, ma che magari dopo pochissimi anni si scioglievano per accasarsi successivamente in qualche gruppo di techno: insomma, quelli per la musica lo-fi non erano anni caratterizzati dai privilegi che ti può portare oggi l' interessamento sempre più serrato della scena mainstream. Sono più o meno questi i pensieri che mi affliggono durante l' ascolto di Goodbye Bread, il nuovo attesissimo disco dello stacanovista americano Ty Segall, capace in cinque anni di registrare una mole tale di materiale da essere suddiviso in qualcosa come quaranta uscite circa, senza contare i dischi con i lanciatissimi Sic Alps e le apparizioni in compilation varie. Lui, che dopo essersi guadagnato la fama di erede di Jay Reatard a suon di garage e duetti - notevole quello in versione surf-rock con Mikal Cronin, ma nemmeno lo split con i Black Time è da dimenticare, considerando che è stato ristampato dopo nemmeno un anno - ha cominciato successivamente a riscuotere consensi dalle riviste specializzate e non per una delle miscele più violente che si siano mai sentite di Sonic Youth, Kills ( quelli di Midnight Boom, per intenderci) e Dirtbombs in occasione dell' album omonimo e del successivo Lemons, non solo decide di adottare in fase di produzione una registrazione qualitativamente più che accettabile ( anche se sporcata qua e la dai soliti fuzz chitarristici di mestiere), ma addirittura di ibernare le sue scariche noise per dedicarsi ad un pop-rock davvero insolito per il personaggio.

Insomma, nemmeno il tempo di far passare la sbornia causata dalle scorribande di Melted, un disco caotico in particolare con i brani Girlfriend e My Sunshine, che il nostro opta cecamente verso un' altra direzione, per andare a formulare un suono con un intento a dir poco geniale: vedere che suono avrebbero avuto le composizioni dei Beatles se fossero state intrise di pura psichedelia beat floreale americana sixties, con Byrds e Buffalo Springfield a far da capo fila, senza rinunciare alla specialità dei gruppi attualmente in voga, con lo space-garage di matrice sperimentale tipico dei Sic Alps a rincorrere le scorribande Black Lipsiane dell' ultimo importante album, qui eseguiti per la maggiore grazie a dei crescendo finali che evitano di far assopire i fan più scatenati. L' esperimento riesce alla grande, con i feedback di chitarre elettriche a dar respiro ai testi, mai così di stampo cantautoriale, ma soprattutto a mettere un pò di ordine in un suono altrimenti troppo melenso, coadiuvato in questo senso da una sezione acustica non svogliata, ma bensì scordata. Il contratto con la famosa Drag City rivela un aspetto del polistrumentista americano sicuramente inedito chissà perché mai preso in considerazione prima ad ora, che fa di Goodbye Bread un capitolo a sè stante rispetto ad una discografia che parla tutta un' altra lingua. Goodbye Bread, in particolare, è un album che abusa allo stesso tempo dei jingle jangle tipici del folk-rock e di certe liriche di stampo Lennoniano senza mai disdegnare di aggiungere qualche coda di buon rock a fine brano: qualcosa, insomma, che si eleva dignitosamente dallo status di alternative-rock band di secondo piano ( come attualmente possono essere i Thee Oh Sees) per diventare grande e così educato da recitare i propri testi non più sputando ma bensì cantando, in maniera decisamente melodica, per altro. No, Jay Reatard non sarebbe mai stato capace di un disco del genere, lui che nella vita ha cercato ed ottenuto sempre una sola cosa: l' eterna giovinezza.

L' iniziale Goodbye Bread è la Sunday Morning del Nostro, il lascito di un artista che ormai deciso a lasciare il sound che l' ha caratterizzato la sua esperienza solista cinque anni or sono, onde correggere il tiro ed affermare implicitamente che di sing along ce ne saranno ancora molti, il tutto musicato con un compendio sdolcinato che lascia spazio a sprazzi di fuzz elettrici ed elettrizzanti. California Commercial denota un certo amore per gli scritti di Adam Green nel suo svolazzare di dolce bluesy alla maniera di Chris Bell, ed anche Comfortable Home ( A True Story) segue questa stessa struttura gettando di peso Captain Beefheart in un languido galleggiare pop che non stanca mai. You Make The Sun Fry tributa in maniera convincente i Beatles di Come Together attraverso l' uso di avvincenti vocalizzi vibranti, mentre I Can't Feel It veste il mood alcolica dei Nirvana con una lussuosa giacca vintage di rock vecchia maniera, non senza riuscire ad evocare i Beach Boys più smodati nelle chitarre. Queste prime tracce sono la dimostrazione di una qualità incredibilmente omogenea nelle tracce, che non raggiunge picchi autentici ma che sa far ricordare ogni sua parte: un degno proseguimento è in questo senso My Head Explodes, che rievoca il Thurston Moore di Trees Outside the Academy in un brano tutto feedback e percussioni. Dimostrazione di codesto inconsueto ossimoro tra veloce e lento è invece The Floor, che abbaglia insistentemente alternando momenti di freak-folk rapido ad esalazioni di derivazione dream dal piglio pigro e sonnolento. Where Your Head Goes è la ballata elettronica del disco, una dimostrazione di puro acid-rock che lascia estasiati ed incantati, mentre I Am With You riprende in mano la situazione con una sezione acustica ancora una volta eseguita in alternanza di ritmi, per concludere con la scazzata Fine, che in una caricatura corpulenta dei Pavement racchiude un testo contraddistinto ancora una volta da una semplicità efficace e disarmante.

Bisogna sicuramente promuovere il nuovo volto di Ty Segall, al termine del disco, perché la sicurezza con cui ha scritto e suonato ogni parte di questo Goodbye Bread è tanta, quando i mezzi, se pensiamo che ha registrato tutto in solitaria avvalendosi successivamente dello studio professionale, di certo non invogliavano a compiere un salto del genere. Influenzato da ormai molto tempo dal punk degli Stooges, l' artista che mosse i primi passi a San Francisco si è armato del pop dei sixties per conferire un tono più personale e marcato agli strumenti, che qui acquisiscono un suono ben definito, accompagnando il tutto con un modesto lavoro di song-writing, anch' esso una new entry del Segall pensiero. Dopo aver inciso una tale mole di dischi contraddistinti dal punk e dal garage più massacranti per le nostre orecchie, adesso si opta per Goodbye Bread, dodici tracce insolitamente pop-rock: d' altra parte se non rischiava lui, pochi nella musica lo-fi si sarebbero potuti permettere questo lusso.

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