Voto: 
8.0 / 10
Autore: 
Stefano Pentassuglia
Etichetta: 
Autoproduzione
Anno: 
2015
Line-Up: 

Alessandro Ciccolella: Voce

Giordano Bufi: Chitarra

Gabriele Terlizzi: Basso

Gilberto Bufi: Batteria

Tracklist: 

1. The Second Fish Curse

2. The Elephant Walk

3. E(b)sence

4. Inverse

5. Chirals

6. Doppelganger

7. Complexion (ft. Glanko)

8. Heed

Ginkgo Dawn Shock

Heed

Sembra che la Puglia non abbia alcuna intenzione di fermarsi. Dopo aver dato i natali a un’infinità di band tra le migliori del panorama metal nostrano (Cast Thy Eyes, Nontoccatemiranda, Natron, Disguise, Dewfall… la lista è lunga) nuove formazioni continuano a nascere, senza mai cedere a compromessi a livello compositivo e dimostrando come la qualità della musica proposta sia il dogma assoluto a cui rifarsi prima di imbracciare gli strumenti.

La prima edizione del Breaking Sound Metal Fest di Mesagne è stata emblematica in tal senso. Un festival metal è sempre un’occasione per fare il punto sulla situazione, nonché un laboratorio di osservazione sulle nuove realtà musicali della regione che l’organizza. Così, forte della partecipazione dei parmensi Dark Lunacy, chi ha partecipato a quel concerto ha potuto spulciare alcuni tra i gruppi più interessanti in ogni città del tacco d’Italia: Brindisi si è data al nu metal con gli Headaxe, Lecce è restata fedele al post metal con le atmosfere sludge degli Izo,  Taranto ha puntato sull’estremo con il black/death degli Alldead, mentre la proposta della provincia barese ha saputo destreggiarsi in un territorio originale come quello del progressive che sposa l’alternative rock. Molfetta non è solo Caparezza, a quanto pare: proprio dalla città del simpatico rapper riccioluto arrivano infatti i Ginkgo Dawn Shock, band dal nome impronunciabile che a una prima analisi superficiale si potrebbe definire come “la risposta italiana ai Tool”, ma che ad un ascolto più attento rivela molte altre qualità che la rendono particolarmente interessante e degna di attenzione.

Heed” è il primo album della band e segue l’EP “3:24”. Registrato a Lecce nel “Sudestudio” di Angelo Buccolieri e forte di una produzione di alto livello, questo delizioso platter viene pubblicato nel Marzo del 2015 e inizia timidamente a farsi conoscere nei mesi successivi, grazie a una serie di concerti in giro per la Puglia; così, proprio in occasione del Breaking Sound Metal Fest, la band sembra avere finalmente un’ottima occasione per farsi conoscere dagli addetti ai lavori e per uscire da quell’anonimato che sembra star stretto a composizioni di questo calibro.

In effetti, ciò che più stupisce di questo disco è proprio il fatto che si tratti di un esordio, vista la maturità che sprigiona da tutti i pori. A dispetto del minutaggio non proprio elevato, la carne al fuoco è davvero tanta e sembra adatta a soddisfare sia i palati più avvezzi alla distorsione facile che quelli in cerca di un metal più raffinato e intellettuale, senza dimenticare i patiti della sperimentazione e delle atmosfere più ipnotiche e ammalianti.

Ma che genere suonano questi ragazzi? Loro lo definiscono “Post Progressive Rock” (o forse “Progressive Post Rock”?), e se ai più questa definizione potrà sembrare inconsistente, bisogna ammettere che ritrae in maniera coerente la valanga di note che provengono da “Heed”. I Ginkgo Dawn Shock sono infatti “post” nel modo in cui sanno rimodellare l’attitudine post metal di certe band (Russian Circles su tutti), trasportandoli su territori più propriamente rock; sono “progressive” per come piegano la tecnica al servizio della creazione artistica, in un’evoluzione continua del suono alla ricerca della costruzione più adatta, fatta di riff che si intersecano con le melodie in modo del tutto inaspettato, con buona pace della forma canzone; sono “rock” quando stuprano l’alternative più semplice (melodia) per piegarlo alle forme della sperimentazione (tutto ciò che non è melodia); sono “post rock” nel sapiente dosaggio delle atmosfere e delle sensazioni emotive che scaturiscono da certi passaggi del disco d’esordio.

 

Non si può descrivere la proposta dei Ginkgo in maniera efficace senza citare il nome della band che più di tutti ha ispirato la loro musica: Tool, Tool e ancora Tool (e in misura minore, anche degli A Perfect Circle). L’ombra della band di Maynard Keenan aleggia su ogni composizione del lotto e la sua influenza è palese già a partire dalla graffiante voce del cantante Alessandro Ciccolella, autore di un timbro caldo e avvolgente che tanto ricorda quello dello stesso singer californiano. Non che questo sia un demerito, anzi: Ciccolella sa il fatto suo e sembra reinterpretare alla perfezione quella straordinaria voce che ogni fan dei Tool sa riconoscere alla prima nota, modulandola e ben adattandola a quelle che sono le dinamiche compositive dei suoi Ginkgo. Allo stesso modo, il basso pulsante di Gabriele Terlizzi e la tecnicissima chitarra di Giordano Bufi riescono a creare atmosfere avvolgenti che ben si sposano con le melodie e gli intrecci progressive che le accompagnano. In tutto questo, la batteria di Gilberto Bufi si destreggia egregiamente tra cambi di tempo continui e ritmiche che fanno il bello e il cattivo tempo, senza mai perdere la concentrazione e muovendosi in un labirinto di sensazioni chiaroscurali, sempre in bilico tra riff cervellotici e refrain quasi catchy nella loro immediatezza.

L’influenza dei Tool, dicevamo. Il fatto che questo non sia un indice di scarsa originalità ma, al contrario, della voglia di uscire dagli schemi, possiamo trovarla proprio nella particolarità insita nella musica del quartetto di Los Angeles. A tal proposito potremmo scomodare le illuminanti parole di Martin Lopez, ex batterista degli Opeth; nel rispondere alle accuse che volevano la sua nuova band, i Soen, talmente simile ai Tool da ritenerli quasi dei cloni, Lopez replicò “Ci ispiriamo ai Tool, ma più che una band, noi li consideriamo come un genere musicale a sé stante.

Se questa affermazione sembrava perfetta per rispecchiare i Soen, è anche altamente rappresentativa del sound dei molfettesi (che molto hanno in comune anche con il sound degli stessi Soen): più che cullarsi tra le braccia di una band importante come quella di Keenan, infatti, i Ginkgo Dawn Shock sembrano piuttosto voler approcciarsi a qualcosa di più “difficile” e ricercato, come impone ogni sonorità che voglia anche solo vagamente ispirarsi a quella dei Tool. Non si tratta quindi di suonare “come una band”, ma di suonare un preciso genere musicale, talmente particolare che nessun’altra band può essere usata come termine di paragone all’infuori di chi l’ha creata, o di chi ad essa si ispira.

Proprio per questo motivo è difficile trovare altre band a cui il lavoro dei molfettesi possa essersi ispirato, a eccezione degli A Perfect Circle (che altro non sono se non un prolungamento degli stessi Tool) e dei Soen (che per molti sono quasi dei "cloni" dei Tool). Possiamo tentare di cercare qualche termine di paragone in base ai richiami vari che si possono percepire nel disco. L’anima prog del combo sembra avere una sua matrice nel gusto delicato dei Porcupine Tree, mentre le atmosfere post rock hanno un incedere che qualcuno potrebbe ritrovare nell’appeal mistico dei Godspeed You! Black Emperor. Forse potremmo addirittura scomodare i Mars Volta per le meccaniche particolarmente intelligenti di certe composizioni, gli Audioslave per le parti più immediate e catchy, o magari anche i primi Russian Circles per il rincorrersi incessante dei giri di chitarra più post metal. E se poi vogliamo proprio cercare il pelo nell’uovo, potremmo dire che la band sembra in parte ammantata di una certa poetica deftoniana, per quanto si tratti più di un approccio di forma che non di sostanza (niente nu metal o suoni simili, ma solo una vaga ispirazione di intenti al mondo di Chino Moreno). Tuttavia, una volta che mettiamo da parte i Tool, ogni altro rimando ad altre band sembra superfluo, in quanto la personalità dei Ginkgo Dawn Shock emerge prepotente dal loro songwriting: qui abbiamo a che fare con una band che “suona lo stesso genere musicale dei Tool”, ma che lo fa sempre e comunque a modo suo.

 

Musica di qualità, prima di tutto. Se non possiamo affermare che i Ginkgo siano una band del tutto originale, è opportuno quantomeno riconoscere la grande ispirazione che pervade ogni minuto di “Heed”, in un turbinio di note che non annoiano mai ma anzi esaltano, sorprendendo l’ascoltatore sempre in modo ragionato e con cognizioni di causa, con cambi di tempo piazzati strategicamente nei punti giusti e la voce di Ciccolella che avvolge il lavoro di una profondità non indifferente.

Composizioni come Chirals e soprattutto l’iniziale The Second Fish Curse (da cui è tratto un videoclip) sono testimonianze di un particolare gusto nella ricercatezza melodica: non appena parte l’album, gli intrecci chitarristici di Bufi si rincorrono tra loro, prima di distendersi su un letto di distorsioni e di saliscendi tra note basse e note alte, su cui la voce si stende languida prima di sfociare in una squisita apertura melodica. La prima traccia è quindi già sufficiente per intuire la maturità del combo, prima che la successiva The Elephant Walk sfoghi sull’ascoltatore i suoi impulsi post metal, fatti di una chitarra mai sazia di note nuove, con l’accoppiata basso/batteria che non cede un filo di tregua all’ascoltatore.

Eb(s)ence è forse il pezzo più propriamente “post rock” del disco, per i suoi arpeggi autunnali e profondamente emotivi, sapientemente sostenuti da un Ciccolella che si stacca per un po’ dalla pesante influenza keeniana per mostrare la sua anima più malinconica e sognante. L’esplosione finale del pezzo avvolge e prepara il terreno per Chirals, una delle migliori canzoni del platter (preceduta dall’interludio Inverse), per quanto sia anche quella dove l’impronta dei Tool è più marcata: alternative rock della migliore qualità, quello colto e intelligente che può far breccia nel cuore dei metallari più raffinati, sia che lo si ascolti su disco sia dal vivo, dove può sprigionare un’energia non indifferente. Davvero un brano notevole.

Tool a palate anche su Doppelganger, pezzo forse un pochino più debole e ruffiano dei precedenti, ma che tuttavia compiace le orecchie con le sue schitarrate al limite dello stoner. Cambi di tempo, tecnicismi e melodie rockeggianti fanno il loro dovere egregiamente, sfornando un’altra traccia interessante e coinvolgente.

I fan della sperimentazione saranno felici di sapere della partecipazione del producer Glanko nel brano Complexion, dove l’elettronica più ipnotica funge da pausa ideale per rilassare le membra prima di chiudere in bellezza il trip. La title-track, posta strategicamente a conclusione del disco, rappresenta la summa ideale di quello che è il suono della band: senza scomodare per l'ennesima volta i Tool (ormai abbiamo capito quanto conti la loro influenza sul sound dei molfettesi), basti dire che Heed (la canzone) conclude l’album con un concentrato di distorsioni, ritmiche serrate e melodie sognanti, tutto al servizio di un’atmosfera profondamente emotiva e quasi catartica.

 

In definitiva, “Heed” è un disco maturo per una band matura, una gran bella realtà che vale la pena continuare a seguire e sostenere. Se per ora i Ginkgo Dawn Shock sembrano essere una delle band tra le più interessanti della nuova scena musicale pe(n)sante pugliase, li aspettiamo ora al varco del prossimo disco (o meglio, dei prossimi dischi): se sapranno plasmare ancora meglio la loro personalità, togliendosi un pochino di dosso la (troppo) pesante influenza dei Tool e gestendo in maniera ancora più matura la loro ispirazione, avranno tutte le carte in regola per diventare uno dei nuovi orgogli nazionali nel panorama rock e metal. Pochi dubbi su questo.

Speriamo in bene nel futuro. Nell’attesa, continueremo a far girare “Heed” nel lettore. E a godere.

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