Voto: 
7.0 / 10
Autore: 
Vincenzo Ticli
Etichetta: 
The Echo Label/Parlophone/ Caroline Records
Anno: 
2006
Line-Up: 

Natasha Khan - Vocals, Piano, Percussion, Keyboards, Drums, Written-By
Caroline Weeks, Josh T Pearson - Backing Vocals, Guitar
Emma Ramsdale - Harp
Ben Christophers - Bass, Guitar
Abi Fry - Viola
Howard Gott, Sophie Sirota - Violin

Tracklist: 
  1. Horse and I
  2. Trophy
  3. Tahiti
  4. What’s a Girl to Do?
  5. Sad Eyes
  6. The Wizard
  7. Prescilla
  8. Bat’s Mouth
  9. Seal Jubilee
  10. Sarah
  11. I Saw a Light
Bat for Lashes

Fur and Gold

Natasha Khan è il nome che si cela dietro al progetto Bat for Lashes, che esordisce nel 2006 con un album stupefacente per bellezza e particolarità: Fur and Gold. La cantautrice e polistrumentista anglo-pakistana, armata di tastiere, clavicembalo e di una voce eterea, costruisce in questo album un universo parallelo all’ordinario, popolato di maghi carismatici e cavallerizze coraggiose, impregnato di oscure citazioni esoteriche e di suoni notturni e misteriosi. Nonostante l’originalità del prodotto, è impossibile evitare di fare paragoni con altre grandi cantautrici come Björk, nei confronti della quale il debito –nel cantato, negli arrangiamenti, nelle melodie- è evidente, specialmente in alcune canzoni. Il viaggio onirico si snoda tra dodici canzoni, la prima delle quali è Horse and I, una concitata marcia militare dall’atmosfera medievale, definita da secchi e freddi colpi di clavicembalo accompagnati da un tamburo marziale e implacabile e dagli acutissimi trilli di una grossa sega fatta oscillare grazie ad un archetto, un tappeto sonoro su cui la voce sognante di Natasha ha un’aria tanto arcana da inondare l’intera traccia di una luce soprannaturale, la stessa che deve aver abbagliato gli occhi della Giovanna d’Arco di cui lei si presta a narrare la storia. Trophy è un pezzo sotterraneo, pulsante, nero come la notte di cui sembra fatto, un buio squarciato dalla voce infantile con cui la Khan, prendendo spunto dallo stile cantilenante e “impastato” che caratterizza Björk, sussurra storie di tradimenti e amori andati a male, invocando creature affinché la rendano libera. In Tahiti torna il clavicembalo, con tocchi leggeri e veloci, ad impreziosire un intreccio di chitarra e pianoforte sospeso e vibrante, circondato da una luminosità quasi solare, come fosse il suono dei raggi luminosi se fosse possibile captarlo e amplificarlo, e tradurlo in musica. Il clavicembalo è protagonista anche in Prescilla, la traccia migliore dell’album, perfetta nei suoi “clap clap” e nel pianoforte incalzante e trascinante che si intreccia ai tasti cristallini e delicati del clavicembalo, che regalano al pezzo un’aria profonda e trasognata e che si accostano alla melodia da lontano, con freddezza, quasi indifferenza. La protagonista di Prescilla è una donna a metà, divisa tra il desiderio di maternità e quello della libertà da qualsivoglia legame: è una canzone il cui tema principale è il dualismo, tematica toccata anche in Sarah, in cui si auspica uno “scambio di vite”, un pezzo ovattato e dinamico nel cui ritornello acutissimo sembra di risentire la Kate Bush nelle sue filastrocche di The Dreaming. Gli stati d’animo che si incontrano lungo il percorso fiabesco tracciato da Bat for Lashes sono molti, dal terrore brusco e quasi cinematografico di What’s a Girl to Do? Alla tenerezza intensa di Bat’s Mouth, dalla serenità acquatica di Seal Jubilee all’estatica inquietudine della finale I Saw a Light. Questa moltitudine che rende unico l’album contemporaneamente lo indebolisce, determinando una mancanza di coesione e di una direzione comune, tanto da farlo apparire come un collage di canzoni, tutte (o quasi) impeccabili ma che poco hanno a che fare l’una con l’altra, raccolte insieme e presentate al pubblico come in una bancarella piena di oggetti d’arte, esposti a prova del grande talento del loro artefice. Non mancano anche gli episodi più deboli, come Sad Eyes, grandiosa nel suo finale quasi gospel ma che stenta a scorrere nei primi minuti, o The Wizard, la canzone forse più carica di riferimenti esoterici (il titolo parla chiaro tanto quanto la descrizione inquietante di una sorta di eucaristia pagana), fornita di beats piacevolmente lo-fi che si invischiano in una cadenza pesante e monotona appena rischiarata dalle stille cristalline del pianoforte.

Fur and Gold, un folgorante album di debutto che ha esaltato i critici e ha procurato alla Khan, alla sua prima vera esperienza musicale, una nomination al Mercury Prize e una ai Brit Awards, entrambe nel 2007, appare sorprendentemente solido e curato, capace di far risaltare la figura sciamanica e misteriosa di una cantautrice in grado di preparare con i suoi filtri (musicali) meravigliosi incantesimi.

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