Voto: 
7.4 / 10
Autore: 
Francesco Tognozzi
Genere: 
Etichetta: 
4AD
Anno: 
2010
Line-Up: 

- Bradford Cox - guitar, vocals
- Lockett Pundt - guitar, vocals
- Joshua Fauver - bass
- Moses Archuleta - drums
- Bill Oglesby - sax (on 'Fountain Stars and 'Coronado')
- Chris McPherson - 12 string guitar (on 'Coronado')

Tracklist: 

1. Earthquake
2. Don't Cry
3. Revival
4. Sailing
5. Memory Boy
6. Desire Lines
7. Basement Scene
8. Helicopter
9. Fountain Stars
10. Coronado
11. He Would Have Laughed

Deerhunter

Halcyon Digest

Che Bradford Cox fosse un giovanotto armato di sale in zucca, enorme sensibilità, talento da vendere e buoni propositi lo si sapeva da tempo; se non dall'esordio - passato a dire il vero piuttosto in sordina - almeno dalle evoluzione futuriste di un album come Cryptograms, che aveva lanciato in orbita i Deerhunter presentandoli al mondo intero come la new big thing del sottobosco indipendente americano. Per chi avesse saltato anche questo passaggio e si fosse concesso una svista persino su quello scrigno di piccole perle intitolato Microcastle, il profumato vento del 2009 aveva consegnato alla storia un autentico gioiello di nome Logos, che il promettente factotum originario di Athens, GA aveva compilato, come si fa con un test scolastico sapientemente e meticolosamente preparato, dietro la ragione sociale Atlas Sound, reincarnazione solista, finora la più fortunata in termini di impressione su critica e grande pubblico.
Quello che mancava (e, sveliamolo da subito, manca per certi versi ancora oggi) a quella che Cox voleva che fosse la sua creatura di spicco, era il vero capolavoro da scolpire nella roccia, un disco che mettesse d'accordo tutti - con buona pace dei detrattori convinti - sui risultati concreti, tangibili di un artista le cui potenzialità paiono a dire il vero indiscutibili. Halcyon Digest, quarta uscita in casa Deerhunter (dato che Microcastle/Weird Era Cont. è normalmente considerato un unicum), fa quadrare i conti e dà un'idea, univoca e non più spiazzante, di quali siano gli intenti musicali e concettuali ormai perseguiti con decisione dalla band di Atlanta; manca però ancora della grinta e paradossalmente della fiducia nei propri mezzi di cui un racconto necessita per assurgere a mito, in una realtà che vive di migliaia di voci ogni giorno desiderose di narrare la propria storia.

Dopo l'esilio musicale newyorchese durato quasi tre anni, il menestrello elettrico dall'aria sommessa e dal fisico seriamente debilitato da una malattia congenita piuttosto rara, è tornato a casa, nella sua Athens che scintillava negli '80 di manifesti colorati che ritraevano star della pop-music come gli XTC e i B-52's, per recuperare colori e ricordi un po' felici un po' inquietanti della sua tormentata infanzia, e confezionare un album che prende le mosse proprio dal fervore musicale (e sopratutto promozionale) di quell'epoca. E pesa, quanto pesa il confronto con i mostri sacri che lui ammirava da bambino, prima ancora di innamorarsi perdutamente dell'arte che più profondamente scava nei visceri dell'anima, prima ancora di capire che quella sarebbe stata la sua strada.
Nelle parole disperate di Cox si legge tutta l'ansia di un musicante che teme la sua debolezza più di ogni altra cosa e non si vede mai in grado di convogliare su di sé l'attenzione che vorrebbe: "When you were young / and your excitement showed / but as time goes by / does it outgrow / is that the way things go / forever reaching for the goal / forever fading black /comes a glow" si legge nell'incipit della rivelatrice 'Desire Lines'; "It could be the death of me / knowing that my friends / will not remember me" tra le pagine oscure della confessione di 'Basement Scene'. Parole terribili, mostruose, partorite da un cuore fragile e gentile ma predestinato alla sofferenza; parole di un giovane che potrebbe essere l'epigono malato di Ian Curtis o di Adrian Borland più che dello scatenato Andy Partridge, e che si va comunque pericolosamente ad aggiungere a tutta una schiera di artisti in lotta perenne con lo spettro dell'indifferenza altrui, feriti dalla propria ambizione e dal proprio orgoglio fino al punto di lasciarsi morire.
Tristi presagi che Bradford e compagni confondono tra le linee di un sound che rievoca spesso in realtà ben altri illustri colleghi del passato, un passato per lo più sessantiano, quello dei Beach Boys e di Jan & Dean, dei Love e degli Zombies: una netta presa di posizione - quando in Microcastle era stata solo parziale - evidentemente consapevole del caloroso gradimento espresso nei confronti del succulento Logos. Una scelta che indirizza nel momento migliore i Deerhunter verso approdi sicuri e mai troppo affollati, proprio mentre si andava consolidando il timore di vedere una band dai mezzi devastanti affogare nel limbo dell'incertezza, tra la psichedelia pop giocosa e colorata da una parte e un freddo, cervellotico space-ambient dall'altra, tutt'altro che capace di calzare nella giusta misura le sue velleità.

Gli ingredienti, insomma, ci sono tutti per fare di questo Halcyon Digest un'indispensabile rassegna di emozioni; manca purtroppo continuità sul piano dell'intensità dei pezzi e ciò ci consegna, ancora una volta, un masterpiece mancato perchè inadatto a tenere botta sulla considerevole distanza del full-length. Così, la prevedibilità e la monotonia di Helicopter stonano tra la disarmante poesia della già citata Basement Scene, falsa cantilena con accessi di Radiohead spezzata da sognanti chorus costruiti su un giro di basso velvettiano, e le filo-britanniche escursioni shoegaze di Fountain Stars nei conturbanti territori della psichedelia di marca '90. Allo stessa stregua Coronado risulta un tentativo non esaltante di remiscelare generi ed epoche abissalmente distanti: il sax suona come in un'anonima ballad di Springsteen e il cantato strizza un po' troppo l'occhio a Casablancas, in un disteso clima da estate nei Sessanta che non riesce ad incidere quanto dovrebbe; l'atmosferica opener Earthquake, pur dimostrandosi molto suggestiva, fa riaffiorare certe strade già intraprese ai tempi di Cryptograms ma privando l'impianto del giusto ritmo e della brillantezza necessaria, con un esito carico di sfumature, ma inconsistente.
Compensano ai mezzi passi falsi meraviglie come la dimessa, notturna liturgia slo-core di Sailing e, agli antipodi, la lucente serenità della solenne, radiosa Memory Boy e del singolo Revival, indovinatissimo frammento psych-pop di due minuti scarsi con la benedizione degli Zombies direttamente dal '68 nonché del fortunato 2nd act firmato Atlas Sound, in una sorta di gradito autocitazionismo. Don't Cry si presenta come uno degli episodi più positivi, sia sul piano musicale, essendo sostanzialmente un solare folk-pop alla Shins, che tematico ("Come on, little boy. You don't need to cry. /You don't need to cry your eyes out. / Come on, kid! Keep your head up and fight. / You don't need to understand the reasons why"): la chiave è rialzare la testa proprio quando si sentono i piedi irrimediabilmente incollati al suolo, come lo sono nelle cupe lande di Desire Lines, a metà strada tra i Ride e gli Interpol di migliore annata, che insiste invece nel ruolo di contraltare alla possibilità di un'insperata pace interiore. Perché è proprio questo il gioco di Cox e compagni: la costruzione di un’altalena di sentimenti in bilico tra la morte e la gioia di vivere, un flusso di sensazioni guidato dal sobbalzare di un’anima sull’orlo del pianto, in cui non c’è spazio per il raziocinio e la riflessione. Menzione a parte per He Would Have Laughed, tenue ballata conclusiva disturbata da percussioni tribali in background e visionarie divagazioni space, dedicata al collega Jay Reatard, tragicamente scomparso il 13 Gennaio scorso. Un bel pensiero per un amico che non c'è più - dai risvolti tutt'altro che scontati - da parte di un ragazzo con l'aria sempre depressa e il cuore grande.

Halcyon Digest
segna un passo avanti importante nel ruolino di marcia dei Deerhunter, non il più ardito, né quello definitivo, ma certamente il più atteso. C’era il fondamentale bisogno che la band trovasse una dimensione propria, nella quale poter spaziare con la dovuta libertà senza il timore di mettere il piede in fallo: l’ha fatto ed oggi il suo non è un sound qualunque, ma un marchio di fabbrica che il poliedrico Bradford Cox ha laboriosamente plasmato nelle sue mani lungo anni di esperienza, collaborazioni, fughe e ritorni.
Neanche questo basterà forse per introdurre il suo nome nella hall of fame, nonostante un talento ancora una volta dimostratosi strabordante, ma ciò può solo accrescere il suo stimolo a tornare presto sulle scene, magari con l’autentico album-sensazione. Gli basti per il momento l’ansia che accompagna ormai ogni nuova uscita legata in qualsiasi modo al suo genio, e la scia di critiche, esaltazioni, commenti delusi e dichiarazioni d’amore che essa lascia puntualmente dietro di sé. Ciò che divide a tal punto è comunque qualcosa che sa far parlare di sé, ed è questo un silente attestato di stima; per i capolavori c’è tempo, nel frattempo è giusto godere dei frutti, di volta in volta più gustosi, del presente.

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