Voto: 
8.0 / 10
Autore: 
Massimiliano Barbieri
Genere: 
Etichetta: 
Fuel Records/Self
Anno: 
2006
Line-Up: 

Mike - Voce
Enomys - Chitarre
Imer - Basso
Baijkal - Batteria


Tracklist: 

1. Aurora (04:43)
2. Play Dead (05:46)
3. Pulkovo Meridian (06:03)
4. The Diarist (02:51)
5. Snowdrifts (05:08)
6. Now Is Forever (05:33)
7. On Memory's White Sleigh (07:02)
8. Heart Of Leningrad (05.51)
9. Prospekt (02:30)
10. Motherland (06:01)
11. The Farewell Song (06.37)

Dark Lunacy

The Diarist

I nostrani Dark Lunacy giungono con questo The Diarist al loro terzo full lenght, considerato in genere l’esame che permette di discernere, tra i giovani gruppi, quelli che hanno raggiunto la piena maturità compositiva. La melodic death metal band emiliana si presenta a questo esame con un prodotto ambizioso: un concept sull’assedio di Leningrado (attuale San Pietroburgo) durante la seconda guerra mondiale, ulteriore dimostrazione del loro amore per la Russia.
Musicalmente, quei 900 giorni di morsa nazista alla città, prendono vita in 11 tracce con la stessa duplice natura che ha caratterizzato i primi due album del gruppo: riffing tipicamente swedish death ottimamente impreziosito con melodie sorprendenti e parti sinfoniche catalizzatrici di emozioni. Ed è proprio sul lato emotivo che la band sembra aver puntato in questa release. Ridotti all’osso i tecnicismi che avevano caratterizzato Forget Me Not e che avevano reso quell’album un po’ freddino, i Dark Lunacy tornano ad un approccio che ricorda quello delle origini.

Chi conosce il gruppo sa già cosa aspettarsi: drammatic death metal, cosi amano definirsi i Dark Lunacy; ebbene qui quest’etichetta è perfettamente calzante, ancora più che nei primi due album della band. E questo perché per la prima volta la componente “drammatic” e quella “death” sono perfettamente bilanciate, procedono di pari passo e spesso si contaminano a vicenda: non sono più quasi separate ma riescono a rafforzarsi a vicenda. Si potranno trovare cosi punti in cui le chitarre elettriche saranno la componente drammatic e altri dove le orchestrazioni andranno a potenziare quella death. Insomma non si nota quasi più lo stacco tra queste due anime della loro musica e il tutto risulta omogeneo e più piacevole. Lo stile è sempre quello anche se alcuni elementi (come ad esempio la voce effettata presente in Play Dead) dimostrano la volontà del gruppo di cercare nuove soluzioni da mettere a servizio della loro musica. Si ha comunque l’impressione che più che a evolvere il loro suono abbiano puntato ad una maturazione dello stesso e visti i miglioramenti si è rivelata una scelta azzeccata.
Sul fronte sinfonico troviamo una maggiore varietà di soluzioni (che vanno dagli ormai storici quattro archi a spezzoni di cori bolscevici passando per un pianoforte nostalgico) e un utilizzo più intelligente delle stesse che vengono messe totalmente al servizio della canzone seguendone lo sviluppo e donandole una vasta gamma di colori emotivi. Ammirevoli in particolar modo gli inserti dei cori con la loro eticità e talmente ben amalgamati al resto da sembrare quasi essere stati scritti per la canzone e non all’inizio dello scorso secolo. Provare a sentire il ritornello di Aurora per credere. Sul lato prettamente metal invece si assiste ad un miglioramento generale dei riffs sia per la potenza che per il lato melodico. La sezione ritmica rimane una felice conferma: precisa, tagliente e ben amalgamata. Il lavoro vocale risulta ottimo da ogni punto di vista comprese le contrapposizioni con la voce femminile e l’esperimento di cantare una canzone (On Memory’s White Sleigh) in russo.
Il livello qualitativo delle canzoni è molto alto e non si hanno cali di tensione, l’album scorre veloce e cattura l’attenzione dell’ascoltatore grazie alle melodie e alle atmosfere riuscitissime. Per questo motivo è difficile trovare una canzone che si innalzi sulle altre ma se proprio bisogna sbilanciarsi Aurora, Pulkovo Meridian, Snowdrifts e The Farewell Song sono allo stesso tempo le migliori e le più rappresentative delle varie anime di questo album.

Il concept è ottimo sia come storia che come resa emotiva e di atmosfere. Doveroso sottolineare come esso non abbia insito nessun messaggio politico ma voglia solo risultare un viaggio in uno dei periodi più bui del passato recente e mostrare la guerra dal punto di vista del popolo che ne ha pagato le conseguenze. Insomma ci da la possibilità di vivere quell’assedio tramite gli occhi di uno dei tanti “diarists” cioè di quei civili che durante l’assedio tenevano un diario annotandoci avvenimenti, sensazioni, pensieri e speranze consegnandole al futuro come testimonianze. Ai fini del concept la canzone più densa di significato ed atmosfere è sorprendentemente quella che musicalmente ha meno da dire e che non ha nemmeno lyrics: la title track. Atmosfera darkwave dettata da un pianoforte solitario ed effetti sonori vari: una macchina da scrivere simboleggiante il diarista, un discorso di Molotov che dice che la vittoria è vicina (che suona come una beffa per chi nel frattempo vive di stenti e sotto assedio), una sirena che annuncia un raid aereo, rumori vari di esplosioni e spari e il pianto di un bambino, emblema naturale della sofferenza di una guerra il cui prezzo viene molto spesso pagato molto caro dai più deboli. Aurora segna l’inizio di tutto con il Canto del Volga, spettrale e nostalgico, cosi come The Farewell Song segna la fine di tutto con un coro epico, fiero…un grido di dolore per ricordare le sofferenze e quelli che non ce l’hanno fatta. E il cerchio si chiude, la guerra ha distrutto molte cose ma non la fierezza di un popolo che tra stenti e sofferenze non si è mai arreso. Da qui una fine che rimanda all’inizio, ma fiera ed epica.

In conclusione Dark Lunacy con The Diarist possono finalmente dirsi maturi. Se vi piace il metal melodico ed emozionante dategli una possibilità, non rimarrete delusi e poi dai, per una volta che abbiamo in casa una band degna di nota non la sosteniamo?


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