Voto: 
7.3 / 10
Autore: 
Luca Pasi
Etichetta: 
Slumberland
Anno: 
2011
Line-Up: 

Brad Hargett
JB Townsend
Kyle Forester
Andy Adler
Keegan Cooke

Tracklist: 

1. Sycamore Tree
2. Through The Floor
3. Silver Sun
4. Alien Rivers
5. Half a Moon
6. Flying Into The Sun
7. Shake the Shakles
8. Precarious Stair
9. Invisible City
10. Death Is What We Live For
11. Prometheus At Large

Crystal Stilts

In Love With Oblivion

Post punk inglese 1980? No, Brooklyn, New York 2011.

E' innegabile che la scena revival abbia come epicentro la Grande Mela, che ha visto in quest'ultimo decennio una propagazione e un fruire infinito di gruppi atti per lo più a rispolverare quelle sonorità tipicamente ottantiane, vedi i vari Minks e The Pains of Being Pure at Heart giusto per citare gli ultimi. Talvolta questo sottobosco è talmente prolifico che è anche difficile seguire con attenzione tutte queste nuove proposte, tuttavia non possiamo esimerci dall'ascoltare con ansia questo nuovo lavoro dei Crystal Stilts. Gravitava, infatti, una certa attesa attorno all'uscita di In Love With Oblivion, attesa più che legittima visto il successo del loro esordio Alight Of Night targato 2008 e l'ottimo singolo di lancio del 2010.

Inghilterra 1980 dicevamo all'inizio, si perché se non conoscessimo la data di pubblicazione di In Love With Oblivion lo potremmo tranquillamente annoverare tra le file di una Manchester dei primi '80, con uno spettro sonoro non dissimile dall'oscurità di un gruppo post-punk come i The Chameleons e che strizza l'occhio con un pizzico di irriverenza, ma se vogliamo anche con una mentalità diversa, alle chitarre appena uscite dalla new wave degli Orange Juice, fautori di quella che venna ricordata successivamente come una tra le più importanti etichette indipendenti: la Postcard Records.
Il quintetto newyorkese quindi continua la sue incursioni nella psichedelia sinistra dei 60s e del post-punk degli 80s, questa volta però con melodie più floreali e un suono più ampio, incarnando così le luci, le ombre e quell'essenza tipica della caotica New York.

Le evocazioni si aprono con Sycamore Tree, che già dai primi accordi è capace di creare ritmiche con un jangly tale da non aver nulla da invidiare alla scena neoezelandese della Flying Nun. Rispetto all'esordio il suono è più levigato e smussato, questo garantisce un approccio più diretto con melodie si confusionarie ed oscure, ma di facile accesso. La formula era riscontrabile già dal singolo di lancio Shake the Shackles, un’istantanea che, più d’ogni altra, ce li fa vedere nel pieno della loro evoluzione (che crediamo non finirà qui) e che grazie ai suoi riff cristallini riesce a penetrarti nel profondo: probabilmente rimanane il pezzo migliore e più rappresentativo del disco. Le chitarre fuzz fanno da padrone nell'intera durata dell full-lenght, il tempo in Through the Floor è totalmente scandito da esse, mentre riverberi e distorsioni si mischiano alla voce waver di Brad Hargett. Il traffico della Grande Mela, si sa, è paralizzante: una macchina frena, sbanda e inchioda contro un ostacolo, sono gli arpeggi iniziali di Silver Sun che non esageriamo a dire essere di palese stampo Subway Organization, indie pop ruvido, grezzo e allo stesso tempo spensierato di gruppi come The Chesterfields, The Flatmates o The Groove Farm. Un sincretismo capace di saltare quindi da un continente all'altro, che attraversa oceani e passa rapidamente da un'etichetta alla successiva; si perché in un periodo che ha visto l'esplosione più significativa di indie labels il gioco è proprio questo: saltare dalle svariate etichette sparse per il mondo che nel loro piccolo hanno definito suoni, esperienze, emozioni.
Con Death Is What We Live For e Invisible City i nostri tornano così senza troppe remore a giocare sul indie-pop americano, all'etichetta che ha segnato svariati gruppi e personaggi tutt'altro che ininfluenti, Kurt Cobain in primis, stiamo parlando della K Records. Le percussioni ossessive ed insistenti, non sono infatti dissimili dai ritmi ipnotici dei Beat Happening. I riverberi non ci mettono molto a saltare da psichedelia di jangle velvettiani a muri sonori di stampo shoegaze.

La schizofrenia musicale della conclusiva Prometheus At Large non fa altro che aumentare le pulsazioni e l'incedere di un suono che racchiude un concentrato e un etica riassuntiva di quello che il revival ci sta riproponendo. Un anello di congiunzione tra Post-Punk e Indie Pop: i Crystal Stilts hanno fatto ancora una volta centro.

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