Voto: 
9.5 / 10
Autore: 
Francesco Tognozzi
Etichetta: 
Philips
Anno: 
1968
Line-Up: 

- Dickie Peterson - bass, vocals
- Leigh Stephens - guitar
- Paul Whaley - drums

Tracklist: 

1. Summertime Blues (Cochran, Capeheart)
2. Rock Me Baby (King, Josea)
3. Doctor Please (Peterson)
4. Out of Focus (Peterson)
5. Parchment Farm (Allison)
6. Second Time Around (Peterson)

Blue Cheer

Vincebus Eruptum

Alle porte del '68 e della più bollente estate che si ricordi, in un clima di grandi tensioni politiche e sociali accompagnato da una crescente rivendicazione di pace e libertà da parte della strumentalizzata e strumentalizzatrice flower generation, a suon di colori brillanti, amore e psicoattivi, un'imponente ondata di controcultura emerse per gettare le fondamenta di quarant'anni di musica a venire.

I Pink Floyd di Syd Barrett, in quel di Londra, avevano qualche tempo prima introdotto in musica gli effetti dell'LSD; i Beatles avrebbero poi sviscerato gli aspetti più vendibili di quest'intuizione per esportarli al di là dell'Atlantico. La gioventù facinorosa degli States respirò a pieni polmoni l'aria di refrigerio che giungeva dalla madre Inghilterra, e nel volgere di una stagione appena i frutti del nuovo ordine iniziarono a palesarsi da ogni angolo della West Coast, con una serie di connotazioni delle più disparate.
Fu così che il solo 1967 assistette all'esplosione dei Doors, cantori di un pericoloso misticismo fatto di sesso, alcool e letteratura; dei texani Red Crayola, che trascrissero direttamente i loro trip in una babilonia di schegge impazzite, portando il tutto agli estremi della cacofonia; dei Jefferson Airplane, fautori di una psichedelia morbida e sognante dedicata alle orecchie maggiormente sensibili; dei 13th Floor Elevators da Austin, TX, indiscussi profeti a stelle e strisce del genere; dei Grateful Dead, con i loro lunghi sermoni provenienti da pertugi remoti dello spirito; di Janis Joplin, artista sincera e viscerale, hippie ruspante con un'incontenibile passione per il blues. E da qualche parte nel sottosuolo di San Francisco, centro nevralgico dell'insurrezione giovanile, anche i Blue Cheer scrissero il loro pezzetto di storia ai margini dell'utopia dei paradisi artificiali, un messaggio destinato ai posteri perché troppo caustico per emergere nell'affollata scena a tinte shocking dell'epoca. Il trio coniò una miscela esplosiva di blues e rock psichedelico, veloce e roboante, e decise di spostare avanti di qualche anno luce le soglie del rumore, per raccontare il lato oscuro della droga. Prima dell'hard rock e dell'heavy metal, prima degli Stooges e del punk, molto prima dello stoner, e del grunge, c'era il furore monolitico di Vincebus Eruptum.

La potenza devastante del debutto dei Blue Cheer fu voluta e premeditata. L'iniziale line-up, che comprendeva ben sei elementi, fu letteralmente dimezzata per garantire una maggior spontaneità e ruvidezza al sound; pochi ma buoni dunque: Dickie Peterson, voce e basso, Leigh Stephens, chitarra e Paul Whaley, batteria, erano musicisti grezzi, scalmanati, posseduti da una forza rovente e distruttrice, perfetti per incarnare quella che sarebbe stata la veste definitiva della band. Via le tastiere, via cori, armonica e terza chitarra, il tutto in concomitanza con la scelta (obbligata) di adottare una produzione di qualità home-made, che certo non costituiva per gli standard del momento un'adeguata prerogativa per ottenere l'agognato successo commerciale. Ma i pionieri californiani sapevano bene che il proprio destino non era quello di imperversare nelle hit parade, bensì quello di riscrivere i precetti del blues e del rock tutto, di cambiare i connotati a un mood fin troppo comodamente legato a doppio filo con le vicissitudini del suo tempo, per costruire una musica diversa, che spianasse la strada verso il futuro. Tre cover per fare scempio del passato, tre pezzi originali firmati Peterson per mettere in atto la rivoluzione acustica: nella sua fisiologicamente ridotta natura di long-playing, Vincebus Eruptum sancì, venendo alla luce nel primo mese del 1968, un affronto senza precedenti ad ogni canone riconosciuto del genere.

Lo si può apprezzare sin dai primi rintocchi di Summertime Blues, l'inno giovanile che Eddie Cochran aveva composto dieci anni prima come tributo alla causa dei 'suffragetti' americani, qui proposto in una versione impudente, spietata. I tre moschettieri feriscono di caos e delirio: Whaley impone ritmi tribali con il suo picchiare forsennato su tamburi e piatti dall'eco glaciale, sinistra; gli dà manforte il basso minaccioso di Peterson, il quale frattanto è impegnato ad evocare demoni con le sue urla rauche; Stephens introduce alle platee il sound a contenuto fortemente acido della sua pedal steel, qualcosa di mai sentito prima, producendosi sul principio come supporto psichedelico per la messa nera che va in scena, quindi in un breve e dissonante assolo di vibrazioni convulse. La rivolta è già in atto: la leggendaria Summertime Blues diventa, nelle mani della band, uno sporca, aggressiva apologia della perversione colma di torpore allucinogeno, un'invettiva di grinta demoniaca che farà la fortuna degli Stooges e degli MC5, ma anche dei Led Zeppelin e dei Black Sabbath. Discorso analogo per Rock Me Baby, seconda rivisitazione dell'album, che solo in avvio mostra fedeltà al blues di B.B. King: i cingoli del carro armato Blue Cheer si fanno sentire non appena Stephens esce dagli schemi per dar vita ad un pandemonio di distorsione; il classico viene sconvolto e deturpato, ma al tempo stesso rinvigorito, dotato di una carica ferina che gli fa compiere uno spaventoso salto generazionale in un nugolo di scosse elettriche del fuzzbox. Doctor Please è invece il primo e più micidiale fendente sferrato dal genio controverso di Dickie Peterson, il sunto pratico e concettuale dell'intero programma sovversivo messo a punto dal trio di San Francisco; un'eresia iconoclasta corredata di velenoso sarcasmo, che si abbatte furiosamente, come la febbre delirante provocata da un acido avariato, sulla pochezza e l'ingenuità della cultura della droga ('I got this funny feeling / feeling inside my head / without your good living, Doc / well I believe that I'll be dead / Doctor don't you turn me down / and won't you hear what I say / I need your good living, Doc / and I need it right away!'). Venti secondi di intro calano l'ascoltatore in un sabba presenziato da un drone che suona come il motore di una fuoriserie, quindi qualcosa di simile a una melodia prende in mano le redini del mostro, un motivo circolare che si contorce su sé stesso su una ritmica traballante e lisergica mentre il cantante intona il suo grido di rabbia malata con una voce al vetriolo, fusione diabolica di Robert Plant e Rob Tyner degli MC5. In quest'ottica Out of Focus giunge come una ventata di sollievo a rivelare il lato più hippie e scanzonato della band; la seconda perla di Peterson ha infatti i vaghi contorni di una ballad dai toni accomodanti, con le percussioni che scandiscono un passo cadenzato e il sostenuto accompagnamento di un tamburello a sottolineare l'assestamento su un clima solo in apparenza pacifico. Il riff che fa da impianto al pezzo è di una semplicità, di un'immediatezza unica, un mantra capace di mettere a nudo velleità proto-punk anche nel momento più morbido e disteso dell'opera; ancora una volta, tuttavia, le frequenze vengono disturbate dagli accordi urticanti di Stephens - sempre più a suo agio in una veste corrosiva e demistificatrice - che nell'assolo diventano il sìbilo acuto di una sirena e il preludio a un finale crepitante. Il terzo classico preso a ceffoni dai Blue Cheer è Parchment Farm, un vecchio jazz-blues del pianista Mose Allison, anche questo sviscerato ai minimi termini e trasformato in un anarchico tripudio di fragori e allucinazioni con risvolti rock'n'roll e instro-surf. Giro di basso cinico ed efficace, Whaley monotono e chiassoso dietro la sua batteria e Stephens intento a ridurre il il gap incolmabile con il guru Hendrix, la cui ombra aleggia prepotente sull'ancora inesperto chitarrista californiano: l'encomiabile quantità di cuore e potenza che egli imprime alla sei corde premia uno stile schietto e del tutto innovativo, che fa dell'uso pesante dei distorsori una panacea per sanare evidenti lacune tecniche; uno spirito punk autentico, che già in tempi non sospetti fornisce risultati assolutamente stupefacenti. A chiudere il sestetto Second Time Around, un altro blues scarnificato e mefistofelico dal passo balbuziente, trama ideale per gli aspri yeah! di un Peterson sempre più infuocato, che si inseriscono come schegge nei vuoti del tumulto; la seconda metà del pezzo evolve in un'odissea di caos totale in cui gli strumenti si rincorrono, avvicendandosi nel tentativo, vano, di reggere le fila del discorso. L'entropia è altissima ed è impressionante il muro di suono che i Blue Cheer, in numero di tre elementi, sono capaci di ergere: a dimostrazione del fatto che nel loro universo il disordine finisce comunque per prevalere, quel che rimane di Vincebus Eruptum è un mare di droni e feedback, residui detritici di un trip ad alto voltaggio, ultime scariche di tensione di un capolavoro destinato a mutare irrimediabilmente il corso degli eventi tra sé e il domani.

Siamo di fronte ad uno dei debutti più incendiari nella storia della musica: l'ardita proposta di questi sobillatori sonici e bestemmiatori del passato fu, nel lontano 1968, una sorta di noise ante-litteram, un elogio alla dispotica autorità del rumore sopra ogni cosa, un assordante travaglio psicotico fatto di scenari tenebrosi e malati. Un disco di grande importanza storica, seminale, ma prima di tutto un ascolto ancora oggi carico di fascino, che entusiasma e scuote gli animi, mantenendo intatta la sua freschezza a oltre quarant'anni dalla nascita, con la suggestiva produzione lo-fi a determinare un valore aggiunto piuttosto più che un limite.
I Blue Cheer avrebbero in seguito avanzato sulla strada del psych-blues, smussando gli spigoli nel successivo, convincente OutsideInside, per poi terminare in un impietoso oblìo lungo una carriera di continui scioglimenti, seguiti da riassetti sempre sotto nuove forme e sembianze. L'opera di revisione che ha riportato in auge il mitico esordio della band in tempi recenti, ha garantito ad esso la meritata, postuma conquista dello status di sommo progenitore del versante più crudo del rock moderno: chi si è preso via via il merito di aver sparso i semi dei suoi sterminati sottogeneri, ha dovuto in qualche modo fare i conti, a sua volta, con l'eredità spropositata che gli antieroi dell'acid generation cristallizzarono in una manciata di sussulti dall'effetto di un terremoto.

NUOVE USCITE
Filastine & Nova
Post World Industries
Montauk
Labellascheggia
Paolo Spaccamonti & Ramon Moro
Dunque - Superbudda
Brucianuvole
Autoprod.
Crampo Eighteen
Autoprod..
BeWider
Autoprod..
Disemballerina
Minotauro
Accesso utente