Voto: 
8.0 / 10
Autore: 
Alessandro Mattedi
Etichetta: 
Warner
Anno: 
2009
Line-Up: 

- Danny Griffiths - sound effects, keyboards, programming
- Darius Keeler - keyboards, choral arrangments, orchestral arrangments, programming, engineering
- Pollard Berrier -vocals, guitar, keyboards, sound effects, choral arrangments, orchestral arrangments
- Dave Pen - vocals, guitar, keyboards
- Maria Q - vocals
- Rosko John - vocals
- Steve Harris - guitar
- Smiley - drums
- Jonathan Noyce - bass, moog bass
- Graham Preskett - choral arrangments, orchestral arrangments, additional piano
- Pete Barraclough - guitar, engineering
- Steve Davis - bass
- Ella Cook - backing vocals
- Eltham Choral Society - choir
- Regional Orchestra of Cannes Provence Alpes Cote d'Azur - orchestra
- Philippe Bender - orchestras artistic director
- Jerome Devoise - engineering

Tracklist: 

1. Controlling Crowds
2. Bullets
3. Words on Signs
4. Dangervisit
5. Quiet Time
6. Collapse/Collide
7. Clones
8. Bastardised Ink
9. Kings of Speed
10. Whore
11. Chaos
12. Razed to the Ground
13. Funeral

Archive

Controlling Crowds

Avevamo lasciato gli Archive sul filo del rasoio del dubbio alcuni anni fa, in seguito a due pubblicazioni controverse: Noise nel 2004 e il successivo Lights due anni dopo generarono diverse perplessità, dividendo in due pubblico e critica a fronte di un songwriting con alti e bassi.
Ora, nel 2009, il compito di riscattare un periodo da "purgatorio", fatto di critiche e timori che il gruppo fosse irrimediabilmente entrato in una parabola discendente, tocca a Controlling Crowds, sesto album studio ed ennesima prova di eclettismo stilistico per il progetto di Darius Keeler e Danny Griffiths - sempre pronti a smontare e rimontare, mescolando tutto, le più varie sonorità da un album all'altro.

Fin dall'iniziale titletrack la sensazione è che ci sia stato un riavvicinamento molto più marcato verso certi elementi della matrice trip hop con cui gli Archive esordirono, più sostanziale rispetto agli sporadici tratti presenti da qualche album a questa parte. Nella fattispecie viene presentato ben presto il battito tipico (in questa opening a metà fra downtempo e drum'n'bass) che scandisce l'atmosfera evocativa mentre giri melodici di tastiera accompagnano l'incedere, prolungato e dilatato, della canzone.
Ma altrettanto rapidamente ci si accorge anche di due cose molto positive: la prima è che, come al solito con gli inglesi, non si tratta di un banale copiaincolla dei canonici ripetuti beats lenti ma "groovy" (ormai stereotipati e fin troppo abusati da plurime gruppi che li ficcano ovunque perché fan figo), il ritmo è invece sempre inserito con misura, ben congegnato e caratterizzato, ma soprattutto variegato e senza ridondanze sbrodolate; ed è inoltre di di puro sostegno alla matrice elettronica che fa da cardine al pezzo, mai sbattuto con sovrabbondanza in faccia tanto per farlo, mostrando così la consueta elegante classe degli Archive.
La seconda è che "riavvicinamento più marcato" non significa per niente che stiamo ascoltando un Londinium parte seconda, cioè di uno speculativo ritorno al passato. Anzi, l'effettistica mesmerizzante e gli arrangiamenti accattivanti sussurrano uno sviluppo più equilibrato e ricercato di diversi elementi già sperimentati nei precedenti due album.
E non mancano novità, come un mood al tempo stesso più intenso e disteso, fattore che assieme al curatissimo dosaggio degli elementi sonori fa sì anche che in tutti i suoi dieci minuti la canzone non suoni mai pesante, monotona o sbrodolatamente noiosa.

Tutto ciò si dipana in quasi ottanta minuti di musica, ma l'ascolto scorre in maniera avvolgente e fresca, fra tappeti atmosferici di contorno, refrain ossessivi ma trascinanti, linee vocali carismatiche, delay psichedelici, orchestrazioni tastieristiche ed una generale rielaborazione del concetto di crescendo emozionale con climax, assimilato anni fa dal gruppo dal mondo post-rock e filtrato in un'ottica espansa da fondali ambientali e strutture trip hop.
Un'opera di sintesi e rielaborazione ricca di verve, oltre che della raffinatezza negli arrangiamenti ormai marchio di fabbrica degli inglesi, mai noiosa grazie alle continue e spontanee variazioni stilistiche ed anche abbastanza ambiziosa: la progressione sonora e i leit-motif melodici si sviluppano poliedricamente alla ricerca costante di quel "pop-prog-elettro" cristallino che viene tanto spesso affibiato agli Archive per descriverli, però ottenendo una variegatezza ben più caratterizzata e per niente scontata (tranne forse in qualche piccolo passaggio più convenzionale) frutto di una certosina cura degli arrangiamenti e di un continuo rimescolare di tappeti sonori dall'ambient all'hip hop passando per indietronica, dub e rock alternativo.

Bullets ha tratti meno malinconici ma più cupi, la tastiera tinge giri melodici avvolgenti mentre strings d'accompagnamento e bpm accelerati aumentano progressivamente lo spessore emotivo del pezzo, fino al climax in cui sopraggiungono muri di chitarre distorte ed una batteria intensa, in alternanza a tastieroni con tanto di choirs - soluzione a dire il vero già sentita moltissime volte ma proprio perché efficace nel fare atmosfera se non se ne abusa con pomposità.
La ballata Words on Signs inizia con un mesto pianoforte ad accompagnare la voce afflitta e malinconica; non passa molto prima che si inseriscano le consuete strings, un battito lento ed elettronico, campionamenti di violini, crescendo emozionali e toni suggestivi. Questi elementi non sono originalissimi, ma creano ugualmente un morbido, intenso punto d'incontro fra indie rock e trip hop, inoltre servono da cuscino prima delle sonorità futuristiche di Dangervisit, più ansiosa e cupa. Il canto e la tastiera sono inquieti, mentre i sintetizzatori e le ritmiche trip hop sono inesorabili e raggelanti. La sezione centrale, dove emerge una piccola influenza dei Porcupine Tree nella crescita sonora, è la più alienante, con interventi rumoristici, droni psichedelici, bassi alienanti e batteria scatenata; ma la conclusione per contro è una dolce, placida outro che allieta l'ascolto. Non casualmente quindi la traccia successiva si intitola Quiet Time, trip hop tinto di ambient e psichedelia in cui ritorna il rap, che ricorda molto l'esordio visto che al microfono c'è proprio Rosko; ma è la musica di sottofondo a differire, meno autunnale e "dolcificata", più intensa e ad un certo punta distorta, andando contro il titolo stesso con il continuo crescendo emotivo che fa sussultare il pezzo rendendolo una piccola perla di evocatività e passionalità.

L'album è comunque diviso in tre parti dal concept, la prima si conclude proprio ora, mentre il successivo brano da inizio alla seconda.

Collapse/Collide è un lungo pezzo atmosferico dove via via si aggiungono sempre più elementi a costituire l'ormai centrale questione del crescendo, con effetti elettronici spaziali, voce femminile dolente, downtempo tagliente, synths acidi, tappeti atmosferici e tanta ricercatezza sonora. La struttura in sè non dice nulla di nuovo, ma sono le combinazioni melodiche a mostrare freschezza e ispirazione, rivitalizzando il trip hop con un caleidoscopio di suoni ed effetti altamente ragionato.
La canzone comunque sfocia in Clones, brano onirico, con linee vocali che ricordano i Sigur Ròs, spunti che reinterpretano l'indie-folk dei Fleet Foxes ed una forte componente atmosferica di sostegno a parentesi distorte atte a sprigionare energia.
Bastardised Ink è molto inquietante, grazie alla sua unione di beats hip hop secchi e tappeti di tastiera gelidi ad anticipare i refrain futuristi che dipingono uno scenario urbano modernissimo, pulsante e vitale, ma anche dotato di un'intrinseca decadenza che espande a dismisura una velata angoscia. Il rapping deciso infine catalizza quest'oscurità, tanto subdola quanto incisiva.
Kings of Speed introduce elementi di un electro-pop ricco e caratterizzato, capace di forte evocatività pur nella sua dinamicità spedita che scandisce paesaggi eterei, in un aggiornamento dell'indietronica e del trip hop che confluiscono su di un impianto tendenzialmente da progressive rock elettronico. Il trip hop jazzato di Whore invece è lento e mordace, la voce femminile filtrata è sensuale e avvolgente, mentre le tastiere miscelano un tripudio sottile ma toccante di dolce e amaro.
Whore conclude anche la seconda parte del disco.

La terza viene introdotta da Chaos che, a dispetto del nome, gioca sulla dolcezza delle linee vocali supportata dal deciso ma malinconico pianoforte, permanendo costantemente su tessuti sonori morbidi, avvolgenti, con le solite strings, falsetti radioheadiani ed una progressiva espansione emotiva mutuata dal post rock.
Razed to the Ground è un electro-hop tinto di dubstep che ricorda i Massive Attack di brani come I Against I, ma in maniera meno macabra e più psichedelica, sbattendo in faccia con crudezza drammi personali contemporanei e l'angoscia criptica del decennio.
Infine Funeral è una ballata eterea suggestiva ma un po' banalotta di tappeti di strings, timidi arpeggi in accompagnamento, beats tenui di sottofondo e attitudine da soundscape che ricorda un punto di contatto con gli Anoice, i Radiohead e i Gregor Samsa.

Possiamo definirlo il miglior disco degli Archive dai tempi di You All Look the Same to Me, nonché un tassello rivitalizzatore per il vasto ed inflazionato panorama del calderone trip-hop.
Ma soprattutto, è un efficace esempio di come coniugare il recupero di elementi del passato discografico (un cuore musicale intrecciato con una matrice trip hop intensa e con stratificazioni oniriche) con la progressione sonora, sintetizzando il tutto con personalità e freschezza ideativa, in risposta a tutti quei gruppi che, poveri di intuizioni, regrediscono al passato riciclandolo pedissequamente senza barlumi di creatività.

Un'opera ambiziosa e ricca di coesione, immediata ma non scontata, oltre che un concept sui drammi psicologici dell'era attuale. Il positivo ritorno di un gruppo di notevole spessore che proietta il trip-hop dritto nel 2009, scardinandone i limiti e mostrandone tutto il potenziale ancora esprimibile.

Da notare anche che originariamente gli Archive avevano previsto di suddividerlo in quattro parti anziché tre, la quarta è stata invece separata e "rimandata" all'autunno 2009 in cui è previsto un nuovo album costruito su di essa.

NUOVE USCITE
Filastine & Nova
Post World Industries
Montauk
Labellascheggia
Paolo Spaccamonti & Ramon Moro
Dunque - Superbudda
Brucianuvole
Autoprod.
Crampo Eighteen
Autoprod..
BeWider
Autoprod..
Disemballerina
Minotauro
Accesso utente