Voto: 
7.0 / 10
Autore: 
Alessandro Mattedi
Genere: 
Etichetta: 
Stealth Sonic Recordings
Anno: 
1994
Tracklist: 

1. Rumble/Spirit of America
2. Liquid Cool
3. Film Me and Finish Me off
4. I Need Something Stronger
5. Pain Is a Close up
6. Omega Point
7. (Don't Fear) the Reaper
8. Astral America
9. Millenium Fever
10. Stealth Requiem

Apollo 440

Millennium Fever

Forse molti avranno già sentito nominare gli Apollo 440 (a volte menzionati anche con il monicker Apollo For Forty che avrebbero utilizzato in seguito sui loro stessi cd a partire dal 1996, più raramente chiamati @440 o più simpaticamente come Apolli), per via della dose enorme di singoli e remix da loro sfornati, molti dei quali utilizzati in note pubblicità, oltre che grazie alle collaborazioni con diversi artisti e soprattutto alle partecipazioni in innumerevoli colonne sonore. E molti altri conosceranno le loro escursioni nel campo della commistione fra rock ed elettronica. Ma partiamo dai loro esordi. Gli Apollo 440 vengono formati nel 1990 a Liverpool dai fratelli Trevor ed Howard Grey assieme al loro amico e collaboratore Noko, elaborando il nome del dio greco e della musica e delle arti (oltre che del Sole come noto ai più) Apollo con la frequenza della nota La a 440 hertz. Tutti i membri erano assai attivi nella scena elettronica commerciale inglese, realizzando una gran quantità di samples e spunti musicali che avrebbero poi tradotto nei primi singoli, ma è solo dopo aver trasferito il loro "quartier generale", affettuosamente chiamato Apollo Control, a Londra, più precisamente nel quartiere di Camden, che riescono a completare nel 1994 il loro primo album, Millennium Fever. Prodotto dalla Stealth Sonic Recordings di loro proprietà e distribuito dalla Epic Records, in patria il disco riscosse un discreto successo entrando sia nelle classifiche pop che in quelle dance, anche se gli Apolli sarebbero rimasti ancora per un po' di tempo noti più per i remix e la fama internazionale l'avrebbero raggiunta solo alcuni anni dopo con i singoli Krupa e Ain't Talkin' 'bout Dub (cover dei Van Halen). Millenium Fever è un album di solida dance, ballabile e a tratti ispirato dall'ambient, che poco ancora ha a che spartire con gli stilemi che in futuro sarebbero stati sperimentati dalla band. Inoltre il disco ha, più o meno, un concept: si tratta infatti di un tributo all'artista post-moderno francese Jean Baudrillard, più volte menzionato.
Si parte dunque con i ritmi tribali di Rumble Spirit of America, primo grande pezzo dell'album, suite dance fresca e divertente che ci introduce ottimamente nello spirito di Millenium Fever. Questo spirito si fa più cupo con Liquid Cool, focalizzandosi su atmosfere più dense unite ad un gradevole giro di note ripetuto; il brano inoltre è un tributo ad Alcor, una compagnia dedita alla ricerca e allo sviluppo della criogenizzazione, tema che verrà menzionato nuovamente più avanti. Passiamo ora a Film Me & Finish Me off che si riallaccia maggiormente alla wave di synth-pop anni '80, reinterpretata in ottica più danzereccia. Gli splendidi refrain questa volta compongono una canzone molto più breve, di quattro minuti invece di nove o dodici. Ma con i tre brani successivi torneremo nella media di minuti dai sette ai dieci: I Need Something Stronger è un'energica marcia fra sonorità jungle e ritmi discotecali, mentre Pain Is a Close up rilassa l'ambiente, pur preservando un piglio catchy e abbastanza spedito. L'ottima, fumosa ed evocativa Omega Point, forse la canzone migliore grazie anche al denso dub di sottofondo e alla chitarra sognante (per cui possiamo intenderla come un'anticipazione della futura Electroglide in Blue) si riferisce all'omonimo concetto del gesuita francese De Chardin sul livello massimo di conoscenza raggiungibile verso cui punta e si evolve la coscienza di una civiltà progredita. Include anche una citazione dalla pagina 676 del libro Il principio antropico cosmologico di Barrow e Tipler:

"At the instant the Omega Point is reached, life will have gained control of all matter and forces not only in a single universe, but in all universes whose existence is logically possible; life will have spread into all spatial regions in all universes which could logically exist, and will have stored an infinite amount of information, including all bits of knowledge which it is logically possible to know."

Don't Fear the Reaper è una cover elettronica della rock band Blue Öyster Cult, che nell'edizione singolo ha, nella custodia, alcuni dettagli su come contattare Alcor, la società che abbiano già nominato prima. Un pezzo interessante, che mostra come sia facile, a partire dalle stesse note, tramutare in un riuscitissimo energico pezzo da discoteca un classico di quegli anni '60 e '70 (ciò non impedirebbe che i rockers di vecchia data possano schifare totalmente l'idea). Astral America si riferisce all'opera America, del 1988, di Baudrillard. E' forse la canzone più divertente dell'album, un'escursione fra tastiere futuristiche e synth distorti, il tutto mentre il battito discotecale mantiene il ritmo, per un brano relativamente breve all'interno dell'album, dinamico e diretto. Il brano successivo torna più sulle coordinate di Don't Fear the Reaper, con l'aggiunta di un piccolo arpeggio di chitarra ad esaltare l'energia del resto dell'ensemble: ad ogni modo, nella titletrack Millennium Fever ritorna nuovamente il tema della criogenizzazione, difatti il testo ad un certo punto recita "I've been dreaming of freezing my mind in California", stato in cui tra l'altro Alcor aveva la sua sede fino al 1994. Con Stealth Requiem si chiude l'album e il cerchio su Baudrillard: il testo questa volta si riferisce al suo concetto sull'iperrealtà, con una voce femminile che ad un certo punto esclama "ravishing hyperrealism, mind blowing" ed una citazione dallo stesso testo di America: "the exhilaration of obscenity; the obscenity of obviousness; the obviousness of power; the power of simulation." Il brano comunque è il migliore assieme ad Omega Point, una fresca performance dalle tinte noir immerse in un'atmosfera post-moderna, impreziosita dagli effetti elettronici che vagano dal ruolo di contorno efficace a quello di base gustosa.

Arrivati a questo punto, è chiaro che il primo disco degli Apolli, quindi, non sia ancora sulle coordinate stilistiche che sperimenteranno in seguito, ma ciò non significa che vada ignorato, anzi, è un lavoro più che buono che i fan del gruppo possono apprezzare ugualmente, anche senza la polimorfia delle opere successive.

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