Voto: 
9.4 / 10
Autore: 
Edoardo Baldini
Etichetta: 
The End Records
Anno: 
2002
Line-Up: 

- Don Anderson - chitarra
- John Haughm - voce, chitarra, batteria
- Jason William Walton - basso


 

Tracklist: 

1. A Celebration For The Death Of Man... (Strumentale)(02:24)
2. In The Shadow Of Our Pale Companion (14:44)
3. Odal (Strumentale)(07:38)
4. I Am The Wooden Doors (06:10)
5. The Lodge (Strumentale)(04:39)
6. You Were But A Ghost In My Arms (09:13)
7. The Hawthorne Passage (Strumentale)(11:17)
8. ...And The Great Cold Death Of The Earth (07:13)
9. A Desolation Song (05:07)

Agalloch

The Mantle

L’Ambient può sembrare un genere musicale abbastanza strano, spesso scontato, che trasmette emozioni solo attraverso l’atmosfera naturalistica creata: troppo frequentemente rischia di diventare quasi uno stile di vita vero e proprio, incarnando anche un valore simbolico e religioso, come è accaduto negli anni ’90 per la New Age.

Gli Agalloch di The Mantle sono una realtà completamente diversa da quelli del primo From Which of this Oak: spostatisi verso sonorità più sperimentali durante questi sei lunghi anni di attività, i quattro americani penetrano all’interno dei sentimenti di ogni ascoltatore con il full-lenght del 2002, una perla acustica di elevata ed unica raffinatezza, un lavoro complesso da comprendere.
Il paesaggio naturale desolato, ghiacciato ed arido è comparato all’animo umano, come in ogni altra opera della formazione statunitense: tuttavia, il senso di depressione e smarrimento che si origina da The Mantle, è evidenziato dai timbri atmosferici tipici del Folk apocalittico; preannunciato dall’ep Of Stone, Wind and Pillor, l’album cambia radicalmente la visione musicale di Anderson e compagni: restano ormai poche tracce di quel Gothic/Doom che ha contraddistinto Pale Folklore, per lasciare ora spazio alle chitarre Folk in stile Sol Invictus e Death in June.

L’opera può sembrare monotona per i passaggi lenti, per le monumentali aperture sonore, per la calma che caratterizza ciascuna delle nove canzoni in cui si struttura, ma risulta un’alternativa rilassante che permette all’ascoltatore non solo di immedesimarsi nel lavoro, ma di riflettere sulla propria esistenza. Potrà apparire banale che un disco costruito attraverso gli irrefrenabili arpeggi, le pennate cadenzate delle chitarre e le tastiere atmosferiche, trasmetta delle emozioni: eppure la malinconia che pervade la composizione è il simbolo dell’attenta ricerca stilistica e della costante evoluzione mentale degli Agalloch.
Non si deve parlare di pubblicazione elitaria, riservata ai pochi cultori che possono esplorare a fondo il mondo di The Mantle, poiché la complessità che ha generato il disco è solo il segno della sperimentazione del combo americano.

Ciò che è rimasto immutato da Pale Folklore è il cantato di Haughm, a metà tra uno screaming e un triste sospiro, un sibilo gradevole che accompagna l’intero full-lenght, nonostante questo sia per la maggior parte strumentale. Le chitarre distorte sono impiegate solo in rari passaggi, come nello splendido capitolo I Am the Wooden Doors, in cui lo screaming si fa più acuto ed espressivo, supportato da cori alla Ulver e alla Opeth. Sono queste le formazioni scandinave a cui gli Agalloch si ispirano maggiormente, traendo tutti gli elementi fondamentali per creare una musica nordica, introspettiva e toccante.
I capitoli acustici invece si estendono lungo l’intero The Mantle, costituendo la sezione principale insieme agli effetti di tastiera ambientali e alla batteria discontinua, ritmata e precisa.

Sarebbe inutile descrivere i brani disegnati dalle menti di Anderson, Haughm e Walton poiché rappresentano la perfetta unione tra solitudine, desolazione e freddo: le liriche ricercate sono il lato più prezioso del lavoro, stilisticamente paragonabile a grandi nomi della storia del Neo-Folk; ma solo immergendosi nel paesaggio invernale si scopriranno nuovi dettagli, che non deluderanno sicuramente le aspettative degli appassionati.
 

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