STORIA DELL'ELETTRONICA I

GLI ANNI SESSANTA E LA DEFINITIVA ESPLOSIONE: STOCKHAUSEN E COLLEGHI

Anni ’60, in ambito elettronico, vuol dire principalmente essere coscienti degli errori e delle limitazioni compiute in passato, vuol dire poter usufruire di materiale tecnico molto più avanzato e produttivo, più vicino alle idee dei compositori, nonché capace di soddisfare ogni tipo di richiesta sonora.
Maggiore interprete della nuova marea elettronica che si sviluppò tra il 1960 e il 1970 fu, ancora una volta, Karlheinz Stockhausen, unico vero sopravvissuto dell’epopea tedesca degli anni precedenti, nonché unico compositore capace di rielaborare e ricreare le tecniche e le premesse strutturali su cui lo studio di Colonia aveva precedentemente sperimentato. Abbiamo già visto come Berio e Maderna avessero tentato una sorta di sutura tra il mondo concreto e quello razionalistico, cercando di inquadrare la propria musica in un’ottica più estesa e, per certi versi, universale, non vincolata ad un’idea ristretta o scritta secondo un canone rigido e minuziosamente da rispettare. Allo studio di Milano va quindi attribuita l’importanza di aver aperto una nuova strada, una nuova dimensione all’interno di quella musica elettronica che sembrava dovesse riprodursi, come un’anima dannata, in un continuo ed interminabile confronto tra concretismo e serialità, tra suoni naturali presi alla rinfusa e generatori d’onda impazziti.
Quel nuovo modo d’intendere la composizione “generata” che il duo milanese racchiuse in Differencès e Musica su Due Dimensioni (1958), fu infatti il punto di partenza che in seguito fece da base per un nuovo ed imponente sviluppo del genere elettronico. Addirittura un razionalista estremo, un esteta della rigidità compositiva come Stockhausen, che assunse i connotati di sperimentatore del “suono totale” con Kontakte (per suoni elettronici, percussione e pianoforte, 1960) con l’avvento degli anni ’60 si liberò dalle restrizioni del serialismo vedendosi aprire davanti orizzonti e scenari compositivi mai pensati prima.
Il salto fu inevitabile, ma non per questo drastico: l’inquietudine e l’alienazione mentale che caratterizzavano i primi lavori sussisteva ancora, anche se in scala minore, e quel quasi disperato stimolo di ricerca e d’innovazione ancora ribolliva all’interno di ogni singolo suono della sua musica. La differenza tra il primo e il secondo decennio di musica elettronica sta proprio in questo, ovvero nella consapevolezza che viene acquisita quando si capisce che una musica del genere non può più vivere sotto le sembianze di una sperimentazione gratuita, libera, quasi “a piacere”. Ciò che venne trasformata fu non solo l’attitudine con la quale il musicista si poneva innanzi agli strumenti e al materiale, ma soprattutto ciò che egli desiderava sentire dalle sue creazioni: non più disordini cosmici di generatori schizofrenici o accozzaglie di suoni naturali, ma un insieme sonoro studiato e concettualmente elevato.
Stockhausen proseguì la ricerca elettronica più profondamente rispetto agli altri maggiori compositori del tempo (Berio, Maderna, Pousseur), dando al genere l’impennata necessaria per una sua realmente tangibile evoluzione: col già nominato Kontakte, il musicista tedesco ampliò a dismisura le possibilità compositive scagliando nell’immaginario collettivo un’opera ricchissima, evocativa e tecnicamente eccellente (è una delle prime volte in cui il ritmo prende una sembianza percepibile). Successivamente, le opere di Stockhausen si mossero lungo coordinate dettate da continue commistioni tra strumenti reali e materiali elettronici, sterzate rumoristiche e pause “atmosferiche” (le virgolette sono d’obbligo) da far accapponare la pelle: Mikrophonie I e II, rispettivamente del 1964 e del 1965, sono due monumenti alla follia e all’insanità, due perfette colonne sonore dell’alienazione umana all’interno del mondo tecnologico. Mai sentita una così grande portata espressiva del materiale elettroacustico che in queste opere si eleva ad inauditi livelli di penetrazione mentale e sensoriale: la crudezza dei generatori non è più tale in quanto elemento appena scoperto e non elaborato, ma perché essa rientra oramai nel gioco di sensazioni/impressioni che si instaura tra il compositore e l’ascoltatore; anche gli strumenti reali che nelle prime apparizioni in ambito elettronico venivano visti come mero sberleffo alla tradizione classica occidentale, a partire dagli anni ’60 diventano una necessaria cornice sonora per affiancare l’asprezza del materiale elettronico.

Ma il salto più grande, il passo in avanti che fece capire fino a dove la sperimentazione musicale fosse arrivata, fino a dove l’intelletto umano si fosse spinto, risponde al nome di Hymnen (1967-1970), il colosso Stockhauseniano per eccellenza, la sua mastodontica statua, l’espressione concettualmente più elevata del suo genio, nonché la prova più convincente che d’allora in avanti l’uomo si sarebbe messo alla stessa altezza del mondo e della natura. Prima degli anni ’60 esisteva la sottomissione, quella sorta di romantica servitù interiore attraverso cui ogni compositore si assoggetava all’universo naturale; la musica elettronica non solo annichilì questo contrasto tra l’essere umano e ciò che è più grande di lui, ma proiettò l’individuo al di sopra di tutto, dei dogmi, delle tradizioni e delle culture che, per riallacciare il discorso, in Hymnen vengono fuse, distorte, violentate. La grande opera di Stockhausen prende infatti gli inni nazionali di tutto il mondo e li rigetta in un calderone in cui essi vengono brutalmente deformati, attraverso una manipolazione timbrica e atmosferica angosciante, quasi apocalittica, uno spazio di avanguardia danzante in cui rientrano anche suoni concreti e, ovviamente, i soliti graffianti generatori elettronici, sempre più opprimenti ma ancor di più carichi di espressività fantascientifica e di suggestione “melodica” (ancora una volta le virgolette sono inevitabili).
Con Hymnen l’impero musicale di Stockhausen tocca il suo apice, giungendo a vette che rimarranno irragiungibili per il resto dei compositori elettronici degli anni ’60 e anche per se stesso: da lì in avanti gli esperimenti del musicista tedesco smetteranno di brillare soprattutto per carica d’innovazione dato che, dopo quasi venti anni di musica, le sue sperimentazioni divennero in qualche modo di dominio pubblico, scagliandosi prepotentemente all’interno delle concezioni compositive dei maggiori interpreti elettronici del tempo che nella sua musica trovavano le principali influenze a cui ispirarsi.
In primis Berio, Maderna e Pousseur (quest’ultimo intanto entrato pienamente in contatto con i due milanesi), nonostante stiamo parlando di compositori che effettuarono negli anni ’60 solo sporadiche apparizioni: Maderna scomparve gradualmente dopo le ultime composizioni risalenti al decennio precedente, Berio si fece notare soltanto con un’opera (Visage per voce, suoni elettronici e nastro magnetico) e lo stesso fece il collega belga che, dopo aver scritto nel 1961 Trois Visage de Liège, opera che tentava ancora una volta di allacciare il mondo concreto a quello purista, si fece da parte finchè non si persero le sue tracce (anche se egli proseguì con una fortunata carriera di teorico grazie a cui oggi è un personaggio ancora molto apprezzato).
Sorprende a questo punto il fatto che l’unica vera e intensa reazione che lo scenario elettronico vide nei confronti di Stockhausen, provenne ancora una volta dall’Italia, più precisamente da Luigi Nono, personaggio ambiguo e spesso curioso, costantemente racchiuso tra ricerche di pura innovazione tecnico-materialistica e incontrollabili bisogni di rendere la musica come un veicolatore di messaggi sociali (la lotta di classe e il socialismo, nel suo caso). Questo perché l’attività di Nono fu molto più intensa, profonda e sentita rispetto a quella di molti altri compositori elettronici o pseudo-elettronici del tempo, come ad esempio i già nominati Henk Badings, il curiosissimo spagnolo Roberto Gerhard (d’origine svizzera) che cercò in tutti i modi di modernizzare e innovare l’elettronica nonostante fosse tutt’altro che avvezzo a questo tipo di musica, o ancora il “matematico” Yannis Xenakis e il celebre tecnico (più che musicista) dello studio di Colonia, Gottfried Michael Koenig (interessanti i suoi studii sui calcolatori elettronici, come Materialen zu einem-Ballet del 1961).
Un po’ sullo stile della Varsavia degli anni ’50, Nono, con la sua insaziabile febbre politica, è stato uno tra i più peculiari interpreti della musica elettronica degli anni ’60: si avvicinò al genere in maniera molto diretta e senza passaggi graduali, cominciò a comporre anche senza alcune delle basi necessarie per comprendere nei minimi dettagli gli aspetti tecnici dell’elettroacustica ma, al di là di questo, il suo contributo all’avanguardia del tempo fu fondamentale.
Nono proseguì principalmente sulla strada già tracciata in precedenza da Berio e Maderna, ponendosi quasi come un successore ideale del duo milanese ormai uscito di scena: Fabbrica Illuminata (1964) e Ricorda Cosa Ti Hanno Fatto in Auschwitz (si trattava di cori inizialmente scritti per l’opera teatrale di Peter Weiss, poi rielaborati elettronicamente in studio), prime e più importanti opere del compositore, inquadrano già la rabbia e il fermento politico di un personaggio che ha preferito concentrare le sue forze maggiormente sull’impegno sociale rispetto alla ricerca musicale, prendendo spesso le sembianze di un rivoluzionario più che di un compositore d’avanguardia. Fatto sta che le opere di Nono presentano una strutturazione del materiale sonoro calibrata e gestita con la sapienza di un veterano (quando lui invece, carriera alla mano, poteva essere considerato quasi un novizio in ambito prettamente elettronico), aspetti che aiutano a delineare il progressivo distacco del musicista veneziano dallo studio di Darmstadt con cui era entrato in contatto. Ciò che però fece passare Nono alla storia come una figura d’avanguardia unica fu il suo completo agire su di un livello di scelta, e non tanto di creazione istantanea; un po’ come accade nella scultura sperimentale contemporanea del ventesimo secolo dove l’artista crea opere d’arte attraverso l’atto di selezionare oggetti e situazioni, Nono sceglie il materiale sonoro utilizzabile approfittando della vastità di mezzi che le innovazioni elettroacustiche portarono a termine, distaccandosi quindi progressivamente dalle tecniche e dalle concezioni compositive di marchio tedesco (disprezzava il purismo elettronico tutto generatori e sintetizzatori), in special modo dello studio di Darmstadt con cui il musicista veneziano era precedentemente entrato in contatto.

Dopo Nono la musica elettronica non conobbe più interpreti speciali e degni di essere considerati come un capitolo a parte: con l’improvvisa esplosione delle nuove tecniche compositive, con la conversione dei suoni tradizionali in suoni campionati e con l’irrefrenabile corsa verso il futuro di una tecnologia in piena espansione, il mondo elettroacustico subì una serie di profondissimi e radicali cambiamenti. La scelta della materia utilizzabile, gli spesso estenuanti esperimenti tecnici per modellare i suoni e i tentativi di fondere le più disparate istanze musicali scomparvero gradualmente, svuotando il compositore dei più febbrili stimoli di una ricerca avanguardista che prima d’allora si poneva in maniera diretta e quasi viscerale con i mezzi e gli strumenti a disposizione, ma donandogli d’altra parte dei veri e propri cataloghi sonori attraverso i quali ogni musicista poteva comporre senza più ricorrere a registratori o a generatori d’onda manuali.
In questa sorta di “superamento del superamento”, la musica elettronica conobbe la sua definitiva espansione anche nei riguardi della musica globale, soprattutto grazie alle intuizioni che i Kraftwerk formularono genialmente agli inizi degli anni ’70, allontanando il genere da quella spesso forzata dimensione di intellettualismo colto e diradando la sua portata espressiva alla musica nella sua assolutezza.
 

Paolo Bellipanni


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