Voto: 
8.0 / 10
Autore: 
Samuele Boschelli
Etichetta: 
Emi
Anno: 
1970
Line-Up: 

- Syd Barrett - voce, chitarra
- Willie Wilson - basso
- Jerry Shirley - batteria
- David Gilmour, Roger Waters - produzione

*Come spiegato nella recensione, è molto probabile che presero parte alle registrazioni anche i Soft Machine e Rick Wright.

Tracklist: 

1. Terrapin
2. No Good Trying
3. Love You
4. No Man's Land
5. Dark Globe
6. Here I Go
7. Octopus
8. Golden Hair
9. Long Gone
10. She Took a Long Cold Look
11. Feel
12. If It's In You
13. Late Night

Syd Barrett

The Madcap Laughs

A proposito di artisti maledetti, a proposito di esistenze votate all’eccesso, il caso di Syd Barrett è forse quello più eclatante. Sul diamante pazzo si è detto e scritto troppo, finendo per svilire il suo operato da artista, coi Pink Floyd prima, come solista in seguito. Tutte quelle storie sul LSD, sui suoi smarrimenti psichici sul palco, in quanti si sono fatti beffa delle sue debolezze? La sua è una storia triste. Se non altro tutto questo è servito a noi per comprendere le reali dimensioni di una leggenda, di uno dei veri cult del rock ‘n’ roll.
Fuori dai Pink Floyd nel 1968, e conoscendo le ambizioni e il dispotismo di Roger Waters non deve essere stata propriamente una gentilezza, Syd Barrett era nel caos e nell’alienazione più totale. Errava nell’ambiente artistico londinese, entrando ed uscendo dalle case di amici come Storm Thorgerson e June Bolan, che con ogni probabilità non erano mentalmente più stabili di lui. Ma si sa, quando i riflettori sono puntati, essi finiscono per far conoscere solo una piccola parte di una storia e permettono ad altri di uscirne indenni, soprattutto da certe responsabilità. Roger Waters su tutti, il quale poi avrà di che pentirsi e piangere qualche anno più tardi su Wish You Were Here.

The Madcap Laughs fu un disco sofferto, di lunghissima gestazione. Le prime registrazioni, senza alcun progetto pianificato alle spalle, risalgono ai giorni immediatamente successivi al suo siluramento dai Floyd. Peter Jenner, l’uomo che puntò tutto su Syd Barrett ai tempi di Arnold Layne e Apples And Oranges, volle intravedere in questa rinnovata ispirazione di Barrett la sua personale rivincita. Un modo per dimostrare alla EMI e a tutti quanti che non si sbagliava su Syd, vale a dire che non era possibile ipotizzare un futuro per i Pink Floyd senza il proprio leader. “E’ comunque il responsabile degli unici singoli di successo dei Pink Floyd”, ebbe a precisare in seguito. Al contrario, Jenner dovette sopportare l’ instabilità di un artista non più in grado di gestire la sua creatività. Syd passava da momenti illuminanti di solenne ispirazione, che facevano ben sperare, ad altri in cui in studio si riduceva a distruggere tutto quello che gli passava per le mani. Quando andava bene il suo disagio si traduceva nella improvvisa dimenticanza di un giro di chitarra, di un verso di una strofa, o nel passare repentinamente da momenti ritmici a passaggi solisti, finendo per mandare in saturazione il segnale audio in regia. Qualche sforzo venne comunque premiato: videro luce alcune perle di follia, come Opel, Golden Hair, un gioiellino acustico di Barrett su una poesia giovanile di James Joyce, Terrapin e Octopus. Quattro brani che riflettono il tipico genio barrettiano, il suo mondo incantato e parallelo, condito da quella affascinante follia che alcuni tempi prima portò alla ribalta il nome Pink Floyd in tutto il mondo. Più scarne rispetto ai suoi lavori col suo ex gruppo, assai frammentarie e fragili, ma non di meno affascinanti, queste nuove canzoni mostravano un Barrett finalmente ritrovato, ispirato, pronto a dire la sua contro i tortuosi Pink Floyd di Ummagumma.
Il genio di Syd Barrett andava però ad intermittenza. La sua precaria condizione non consentiva di programmare un qual si voglia piano di lavoro. Così ben presto Jenner passò il testimone a Malcom Jones (non uno qualunque, aveva scoperto Marc Bolan e i Deep Purple) della EMI. Il savoir faire di Jones permise di programmare un iter in studio finalmente serio, soprattutto quando alla EMI ebbero appurato le enormi potenzialità di una canzone come Opel. A conti fatti, quest’ultima rimase inspiegabilmente fuori dall’album, per poi ricomparire 20 anni più tardi nella retrospettiva dall’omonimo titolo. Dunque, la EMI volle investire nuovamente su Syd Barrett, ed acconsentì esplicitamente ad un progetto discografico che segnasse un suo determinato e prepotente ritorno sulle scene. Alla corte di Barrett e Jones arrivarono musicisti affidabili come il batterista Jerry Shirley dagli Humble Pie ed il bassista Willie Wilson ex Jokers Wild, nonché i Soft Machine al completo in No good Trying, un pulsante tesoretto psichedelico con tanto di organi e cosmiche fughe chitarristiche, e Love you, sebbene i crediti non riportassero alcuna traccia di Wyatt e compagni a causa di questioni contrattuali. Peccato che la follia di Barrett non conosceva limiti: i Soft Machine con Wyatt in testa non riuscivano a comprendere e a seguire la filosofia da spirito libero di Syd, il quale non dava riferimenti logici in studio e a domande tecniche come ad esempio “In che tonalità è questa Syd”, costui si limitava a rispondere “Veramente divertente Robert!”, oppure “Sì, sì..certo, come desideri tu!”. Probabilmente la gestione Jones terminò di fatto quando Syd si intestardì nel voler combinare un brano di 20 minuti di sole congas con la sua registrazione casalinga del frastuono di un motore di un suo ex vicino di casa.

Follie a parte, i piani alti della EMI cominciarono a mostrare evidenti segni di insofferenza verso il progetto, soprattutto perchè questo si stava protraendo ben oltre i termini stabiliti (siamo alle porte del 1970). Fu così che entrarono in scena David Gilmour, notoriamente amico di vecchia data e l’unico dei Floyd a mostrare interesse reale verso Syd negli anni, e Roger Waters. I due Floyd si fecero carico dunque di produrre il lavoro rimanente, costituito in gran parte da brevi episodi chitarra acustica/voce, e di portare a termine il progetto. Lo fecero, e anche molto bene.
Quando finalmente The Madcap Laughs vide luce nel 1970 soddisfò pienamente le aspettative dei manager della EMI. Vendette bene, molto bene. Si parlò di oltre seimila copie nelle prime otto settimane e il Melody Maker lo definì “un bell’album pieno di follia e stravaganza”. Questa definizione è realmente quello che questo disco vuol essere, anche inconsapevolmente: una fotografia molto fedele di un uomo perso tra le sue visioni, tra ricordi di infanzia e frustrazioni della sua assurda non-vita contemporanea. Musicalmente parlando è un disco fragile, quasi cristallineo, costruito intorno a scarne filastrocche psichedeliche che mostrano però una fortissima carica comunicativa. La melodia stralunata adagiata sul blues marcio e sgangherato di Terrapin, l’ingenuità infantile mascherata da tenebrosa tensione di Golden Hair, e ancora il tipico, barrettiano incedere singhiozzante di Octopus e Dark Globe mostrarono comunque l’innato valore di un grande artista, capace come pochi altri di cantare la propria follia con straordinaria innocenza. Forzato o meno, con The Madcap Laughs, Syd Barrett viveva nuovamente.
 

NUOVE USCITE
Filastine & Nova
Post World Industries
Montauk
Labellascheggia
Paolo Spaccamonti & Ramon Moro
Dunque - Superbudda
Brucianuvole
Autoprod.
Crampo Eighteen
Autoprod..
BeWider
Autoprod..
Disemballerina
Minotauro
Accesso utente