port-royal
di: 
Edoardo Baldini
06/06/2011



 

Figli della cultura est-europea, i genovesi port-royal hanno saputo costruire negli anni un linguaggio musicale capace di conciliare tensione sperimentale e matrice elettronica. Nel raccontarsi a RockLine.it, la band si sofferma sugli aspetti timbrici e sul sincretismo musica-filosofia che caratterizzano le ultime opere di studio, non tralasciando un'attenta analisi delle difficoltà che affliggono il sottobosco indipendente italiano...


E.B. - Ciao ragazzi, benvenuti su RockLine.it e grazie per averci concesso quest’intervista. Dapprima vorrei congratularmi con voi per il lavoro svolto in questi anni, poiché vi reputo una delle realtà più interessanti del panorama italiano. Per iniziare l’intervista vi chiederei di raccontare la genesi di Dying In Time, vostro ultimo full-length di studio.

port-royal - Grazie a voi per le belle parole. Come ogni nostro album in studio, Dying In Time ha avuto un lungo periodo di gestazione: scrittura, registrazione, produzione, ripensamenti vari, ecc. L’album è stato prodotto da marzo 2006 a inizio 2009 - 3 anni di lavoro intervallati per lo più dagli svariati tour all’estero, svolti in quel periodo. Comunque l’ultimo nostro full-length in studio è il recentissimo doppio album commemorativo 2000-2010: The Golden Age Of Consumerism, uscito a febbraio per l’etichetta americana n5MD, che già aveva pubblicato nel 2009 il precedente Dying In Time.

E.B. - Ho trovato Dying In Time un album più dinamico rispetto ai precedenti Flares e Afraid To Dance, perché capace di conciliare al meglio atmosfera e ritmo; credo che la vostra elettronica rifletta un’estetica prettamente nordica. Siete d’accordo a riguardo? E se sì, quali sono le tradizioni musicali a cui fate maggiormente riferimento?

port-royal - Sicuramente Dying In Time può anche essere visto - lo suggerivamo noi stessi - come una sorta di “sintesi” di Flares e Afraid To Dance, ma è anche qualcosa di ulteriore. Diciamo che è l’ultimo capitolo di una trilogia, composta appunto dai summenzionati dischi, e l’inizio di un nuovo ciclo. Ho capito cosa intendi con “estetica prettamente nordica”, ma, a dire il vero, non ci sentiamo affatto attratti da quel tipo di estetica, anzi pensiamo sia ormai piuttosto abusata ed esausta, specie oggi. Ciononostante, un po’ per comodità, un po’ per abitudine e un po’ per mania di etichettare a tutti i costi, i port-royal sono stati spesso associati dai media all’Islanda, (soprattutto in Italia, che forse a causa della posizione geografica ha subito particolarmente il fascino della “terra promessa” islandese), anche a causa della freddezza del suono, delle atmosfere rarefatte, ecc.; insomma come se l’Islanda avesse il monopolio e il brevetto per queste caratteristiche sonore! Noi abbiamo piuttosto sviluppato un’estetica dell’Est Europa, con nessun riferimento al Nord propriamente inteso in ambito musicale, e sin dall’inizio, pur lusingati dal paragone con i Sigur Ros, abbiamo preso le distanze dal quel gruppo e da ogni riferimento all’Islanda e al Nord tout-court. Come influenze musicali sono state ben più importanti quelle precedenti a quel movimento musicale che ha avuto tanto successo in ambito indie negli anni ’00. Mi riferisco ai Labradford, agli Autechre, ai Mogwai e agli Arab Strap degli anni ’90.

E.B. - Mi piacerebbe riflettere sul significato del titolo e della copertina scelti per Dying In Time. Quali sono state poi le ragioni che vi hanno portato a decidere per un titolo e un artwork così glaciali?

port-royal - Con tale titolo ci piaceva sottolineare un duplice significato: da un lato, il fatto che la fine di ogni fase della nostra vita tende a seguire regole sociali e biologiche quasi inevitabili, dall’altro il dato della quasi impossibilità personale di porre termine a una situazione prima che questa si renda logora e routinaria. L’immagine di copertina è una foto dell’artista Andrea Galvani che ci piaceva perché triste, surreale e minimal, e poiché in fondo forse esprime il concetto che sta dietro al titolo dell’album: l’idea dell’irreversibilità del tempo e del mistero della morte.

E.B. - L’ambito visual vi ha da sempre accompagnato nel vostro lavoro di pionieri elettronici: a cosa vi ispirate principalmente nella stesura dei vostri supporti video e che tipo di storie cercate di raccontare?

port-royal - Dei visuals si occupa quasi esclusivamente Sieva Diamantakos, che è anche diventato membro ufficiale del gruppo, data l’importanza che accordiamo all’elemento della narrazione visiva, come accompagnamento della nostra musica, con la quale si fonde in un amalgama indifferenziato. La fonte d’ispirazione è la vita di tutti i giorni con le sue contraddizioni insanabili, la società in cui viviamo, il mondo in cui siamo gettati. Sieva è particolarmente attento alle dinamiche relazionali e interpersonali di un’epoca che nel momento in cui ha fatto della comunicazione la sua ragion d’essere ha perso la capacità e la voglia di comunicare veramente: un universo dove gli individui, seppure vicini spazialmente e temporalmente (grazie anche e soprattutto ai miracoli tecnici), sono così lontani esistenzialmente. Le storie che vengono rappresentate e narrate sono sempre storie che – oserei dire – toccano un po’ da vicino tutti i giovani (e meno giovani) del nostro tempo: relazioni sfasciate, aspettative tradite, piccoli e grandi fallimenti, mancanza di centro e di scopo, monoteismo del mercato, voglia di apparire piuttosto che essere veramente, spaesamento, alienazione, ma anche voglia di mettersi in gioco, speranza che muore per ultima (!), ecc.

E.B. - Mi ha molto colpito poi la scelta dei colori dei vostri visual: la musica dei port-royal è identificata da accostamenti di colori quali nero e verde o quali grigio e azzurro. Qual è il colore che meglio simboleggia la dimensione port-royal? E quale valore conferite alla stagione invernale?

port-royal - Sicuramente il blu in tutte le sue tonalità. A noi l’inverno è sempre piaciuto, pur con i suoi inconvenienti (ma poi cosa è mai privo di inconvenienti?). Spesso si assiste a un’idolatria e a una “tirannia” dell’estate che vanno a braccetto con la svalutazione e il fastidio che si prova per la stagione invernale – fatto che affonda le sue radici nella notte dei tempi (inverno come metafora della fine della vita, del congelamento delle sensazioni, ecc.). Detto ciò, per noi l’inverno non simboleggia soltanto la fine della vita, bensì anche il suo inizio: è l’alfa e l’omega dell’esistenza, dove inizio e fine coincidono.

E.B. - Passando invece all’ep Afterglow, potreste delinearci il contesto in cui è stato composto?

port-royal - È stato composto in un contesto puramente casuale e rilassato, come spesso ci capita. Nel maggio del 2008, il nostro amico Pascal Asselin (aka Millimetrik) si trovava in Europa, pertanto decise di venire a trovarci a Genova per quattro/cinque giorni. Naturalmente una volta qui volle vedere come lavoravamo, che nuovi pezzi avevamo in cantiere, che strumenti usiamo, ecc. - da qui, in modo del tutto naturale, è sorta l’idea di registrare qualcosa insieme. Allora abbiamo deciso di dedicare al nuovo progetto 4 canzoni (appunto quelle che compongono l’Afterglow Ep), che sapevamo non avremmo mai usato come port-royal. Le abbiamo registrate tutte insieme in quei giorni con Pascal, poi nei mesi successivi noi abbiamo un po’ affinato la produzione e l’Ep era pronto: in seguito, però, per ragioni varie (tra cui altre uscite in programma sia per noi che per Millimetrik), è uscito solo nel febbraio 2010.

E.B. - Che tipo di strumentazione utilizzate in sede di registrazione delle tracce? E come si modifica questa in sede live?

port-royal - In studio computer (sia Mac che Pc), programmi (Cubase, Acid Pro, Ableton Live, Logic), synth (Roland JP 8000, Clavia Nordlead 2, Yamaha DX7), chitarre varie (sia elettriche che non). Dal vivo laptop, synth e sampler. In generale, nel live tutto è più immediato, anche i pezzi vengono presentati in forma più diretta e dura rispetto all’album.

E.B. - Come definiresti il vostro rapporto con l’Est europeo? Qual è il ricordo più significativo che avete delle vostre esperienze in Paesi come la Russia, la Polonia o la Repubblica Ceca?

port-royal - Intenso e profondo: una vera e propria passione. Ci sono davvero così tanti ricordi significativi, che sceglierne uno equivarrebbe a commettere un’ingiustizia nei confronti di tutti gli altri… In generale ogni tour all’Est, in particolare in Russia e Ucraina, porta con sé dei ricordi “storici” e indelebili…  

E.B. - Qual è il responso alla vostra musica di una città come Genova? So che la scena genovese è assai florida e ricca di formazioni degne di nota: credi sia possibile tratteggiare le linee di una “scena genovese” nel circuito indipendente italiano?

In realtà a livello ufficiale non è che ci sia un gran responso: la città, completamente miope e presbite allo stesso tempo, è ben più impegnata a glorificare un passato di tutto rispetto (vedi De Andrè - ma anche altro passato ben al di sotto di quest’ultimo), piuttosto che a notare e supportare i giovani e nuovi artisti… Ne deriva che il passato mummificato blocca ogni passo in avanti e Genova resta privata del proprio presente e futuro artistico. Tendenza, questa, che si nota alquanto spesso in Italia, dove le celebrazioni di ciò che è morto (e non beninteso il ricordo attivo e fecondo che prepara per il presente e il futuro) hanno sempre la prevalenza, facendo sì che il presente non venga riconosciuto nella sua urgenza e che de facto non si possa elaborare un discorso nuovo. A Genova ci sono alcuni buoni artisti che sono conosciuti e apprezzati a livello nazionale; ciò però non significa che si possa e si debba parlare di una scena genovese in senso stretto: insomma, qualcosa c’è, però forse non quello che si potrebbe intendere con il concetto di “scena”.

E.B. - Credete che l’Italia sia ancora sopita nel torpore che da tempo l’ha avvolta a livello di scena indipendente? Mi riferisco soprattutto al grado di accessibilità di certi generi “di nicchia” e all’attenzione prestata da etichette e agenzie nei confronti delle formazioni indipendenti…

port-royal - In parte ho già risposto sopra a questa domanda. L’Italia, alla fine, è la prima a non credere in se stessa, per questo si chiude in un esausto, sterile e spesso ipocrita “culto degli eroi”, e finisce così per importare tutte le nuove tendenze dall’estero. C’è una sorta di pigrizia endemica legata ad un complesso di inferiorità che si declina nei due opposti rappresentati dal provincialismo e dall’esterofilia acuta, che, in ultima analisi, conducono alla stessa mèta: la posizione marginale e provinciale dell’Italia a livello artistico e non solo… Vorrei, a questo punto, sottolineare che questo fenomeno non avviene solo al livello del mainstream, bensì anche e specialmente a quello dell’indie stesso, che tanto lamenta a parole tale tendenza ma che non manca mai di confermare nei fatti…

E.B. - Quali sono i vostri progetti per il futuro? Vi state già dedicando alla composizione del successore di Dying In Time? Come cambieranno i port-royal, stilisticamente parlando?

port-royal - Nel frattempo, dopo Dying In Time (n5MD, 2009), sono già usciti l’Afterglow Ep (Sangre d’Encre, 2010), come ricordavi, e soprattutto il doppio album commemorativo 2000-2010: The Golden Age Of Consumerism (n5MD, 2011), più qualche recente canzone significativa in compilations varie (tra tutte la nuovissima “Spider Toupet” per la statunitense Tympanik Records). Già da alcuni mesi stiamo lavorando al nuovo album, però al momento è ancora troppo presto per fare anticipazioni… di solito solo alla fine di un album possiamo dire dove siamo giunti. Per il momento abbiamo alcune idee guida in testa, e la solita libertà da schemi, pregiudizi, obblighi che sempre ci ha consentito di produrre quello che ci piace veramente.

E.B. - Un’ultima curiosità: qual è stata la ragione della scelta del moniker port-royal?

port-royal - Una certa dose di casualità unita a una profonda passione per la filosofia.

E.B. - Vi ringraziamo per il tempo dedicatoci e vi auguriamo un futuro carico di successo e di soddisfazione. Potete concludere l’intervista come preferite. A presto da RockLine.it!

port-royal - Grazie a voi per l’intervista e l’augurio positivo. Per concludere laconicamente, potremmo dire che nella situazione attuale non sappiamo se sia il caso di svegliarsi oppure piuttosto di addormentarsi definitivamente. La scelta in quest’alternativa, a pensarci bene, non è poi così scontata come potrebbe sembrare a prima vista. Forse bisognerebbe rileggere e riattualizzare la vecchia dicotomia di Eraclito tra svegli e dormienti, che può essere interpretata in molte maniere contraddittorie, quando non completamente antitetiche… ma in base all’interpretazione che se ne dà e alla scelta che si prende rispetto ad essa sono già implicite l’ars vivendi e la personalità di ognuno. Cose non di poco conto.

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